“Martina, 14 anni per sempre. Martina e Giovanna. Bruciate due volte per aver detto no.”

“Martina, 14 anni per sempre. Martina e Giovanna. Bruciate due volte per aver detto no.”

di Cristina Di Silvio

Aveva 14 anni. Martina.

In un’età in cui si sogna di diventare grandi, lei è diventata eterna. Non per sua volontà. Ma perché ha osato dire “basta”.

Non è stata una tragedia. È stata una previsione ignorata. Un copione già scritto. Una crepa nella cultura che si è trasformata in frana. Perché il femminicidio, prima ancora che reato, è una questione sociologica. È l’esito estremo di una costruzione collettiva della realtà che ha assegnato ruoli, spazi, parole e silenzi. È una forma di dominio che si trasmette come eredità culturale, invisibile ma presente. Martina non è stata uccisa “per gelosia”. È stata uccisa dalla cultura del possesso. Quella che insegna agli uomini che l’amore legittima il controllo, che l’abbandono è un affronto, che un “no” è una provocazione. È la stessa cultura che, secoli fa, arse sul rogo le donne libere chiamandole streghe. È la stessa cultura che, in tempi più recenti, ha voltato le spalle a Franca Viola, la prima italiana a rifiutare il “matrimonio riparatore”. Lei aveva 17 anni. Anche allora, la colpa era nella libertà. Martina è l’erede inconsapevole di donne che hanno pagato con la vita la loro autodeterminazione: Ipazia, filosofa e scienziata dell’antichità, massacrata per aver osato pensare; Olympe de Gouges, ghigliottinata nel 1793 per aver scritto La Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina; Rosa Luxemburg, uccisa perché la sua voce era troppo forte per essere ignorata; Neda Agha-Soltan, morta in una piazza di Teheran per aver manifestato. Oggi, quella stessa cultura ha spento la voce di Martina. E noi, come società, siamo colpevoli di omissione educativa. Nel suo gesto – semplice, umano, sacrosanto – di voler dire no, c’era già tutto. C’era il desiderio di esistere fuori dal dominio, di respirare senza paura, di essere soggetto e non oggetto. Un diritto, non un lusso. Ma nella nostra società, ancora oggi, una ragazza libera viene percepita come una minaccia all’ordine costruito. Il carnefice non è un “mostro isolato”. È un prodotto sociale, un nodo in una rete fitta di messaggi impliciti: che la rabbia maschile è istinto; che la donna che rifiuta “provoca”; che la gelosia è una prova d’amore. Queste convinzioni non nascono nel vuoto. Sono riprodotte ogni giorno: nei linguaggi mediatici, nei social, nelle narrazioni tossiche dell’amore come sacrificio, nei modelli familiari che educano al silenzio, nelle scuole che evitano l’educazione affettiva per paura di “scandalo”. Sociologicamente, siamo di fronte a una struttura patriarcale che evolve senza cambiare. Cambia la forma, non la sostanza. Il controllo oggi passa attraverso i social, i telefoni, le chat. Ma il meccanismo è lo stesso: sorvegliare, isolare, punire. Martina è morta perché non abbiamo rotto questo schema. Perché non abbiamo insegnato ai ragazzi che l’amore non si dimostra con il controllo. Perché non abbiamo dato alle ragazze strumenti per riconoscere la violenza travestita da passione. Ogni volta che un adulto dice “non farti vedere così”, ma non dice “rispetta la libertà dell’altro”, aggiunge un mattone al muro dell’omertà. Martina è una vittima sistemica. Come tante. Come troppe.

Se i nomi delle donne uccise fossero incisi su pietra, quel muro eclisserebbe ogni monumento alla civiltà. Perché la civiltà si misura nella vita che protegge, non nei fiori che depone dopo. Giovanna d’Arco fu condannata per eresia. Ma il vero peccato fu la disobbedienza. Cavalcava, comandava, parlava. Era donna e decideva. Il rogo non punì solo lei. Punì la libertà femminile. Martina non è morta sul fuoco. Ma è stata bruciata viva lo stesso. Bruciata da parole, minacce, controllo. Bruciata dal rifiuto sociale di accettare una ragazza che dice “no” e resta in piedi. Sociologicamente, la società è una sceneggiatura che assegna ruoli. Il ruolo assegnato a Martina era quello della “fidanzatina”, del silenzio, della dipendenza, della disponibilità. Lei ha strappato il copione. Ha detto “voglio essere me stessa”. E come Giovanna, è stata giudicata per questo. E noi? Noi non siamo solo spettatori. Siamo coautori di questo copione malato. Ogni volta che una madre dice “non vestirti così”, ogni volta che un ragazzo impara che la rabbia è virile e il rifiuto è insulto, ogni volta che un professore glissa sul tema, ogni volta che un giudice parla di “raptus” e non di dominio, aggiungiamo legna a quel fuoco. La sociologia ci insegna che la violenza non nasce mai nel momento in cui si manifesta. È un processo. Un accumulo. È fatta di piccoli segnali trascurati, microsistemi di potere che si sedimentano giorno dopo giorno: una password pretesa, un’amica allontanata, una porta chiusa a chiave, una libertà tolta in silenzio. Fino al giorno in cui quella ragazza non è più una persona: è una proprietà. Come Giovanna, Martina è stata punita per aver voluto essere soggetto, non oggetto. E come ogni figura storica che ha osato rompere il confine di genere, è stata trasformata in colpa, in disturbo, in minaccia. Il suo assassino non ha agito da solo. La sua mano è stata armata da una cultura intera che per secoli ha modellato l’identità maschile sull’idea di potere, e quella femminile sull’idea di obbedienza. Martina non è una deviazione statistica. È l’effetto diretto di una normalità costruita male. Questa non è solo cronaca. È sociologia incarnata. È l’anatomia brutale di una relazione malata tra genere e potere. Ed è il fallimento collettivo di una società che ancora oggi chiede alle donne di morire con grazia, ma non insegna agli uomini a lasciarle vivere con libertà. Martina, oggi, ci guarda. Se Giovanna d’Arco avesse vissuto oggi, l’avremmo bruciata sui social. O forse nel silenzio. Martina è la sua sorella moderna. E se non cambiamo radicalmente il modo in cui costruiamo i significati di amore, possesso, rispetto, ci sarà una nuova Giovanna. Una nuova Martina. Un’altra, e un’altra ancora.

Perché non sono vittime. Sono specchi.

E ognuno di noi, oggi, ha il dovere di guardarci dentro. Di scegliere se continuare a nutrire il fuoco. O finalmente spegnerlo, con l’unica arma che davvero funziona: l’educazione, il rispetto, la verità. La sociologia ha il dovere di fare luce, di smontare i miti, di riscrivere la narrazione. Serve una nuova grammatica relazionale, che parta dall’infanzia, che ridefinisca i ruoli senza paura. Serve disinnescare la normalizzazione della violenza sottile: quella che non urla, ma suggerisce, s’insinua, forma. Serve che le parole “amore”, “libertà”, “rispetto” non siano slogan, ma pratiche quotidiane, educative, strutturali. Martina ci ha lasciato un compito. Ci ha chiesto – nel modo più crudele – di rifondare il patto sociale tra i generi. Di non accettare mai più che una ragazza venga uccisa per la sola colpa di voler essere se stessa. Possiamo onorarla con l’ennesima panchina rossa. Oppure possiamo farci scomodi. Disobbedienti. Attivi. Possiamo cambiare il linguaggio. Cambiare l’educazione. Cambiare le leggi. Cambiare la narrazione. Perché finché una ragazza dovrà temere di essere libera, nessuno di noi sarà mai veramente libero.

adminlesociologie

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