La violenza mascherata: riflessioni sociologiche sul caso Carturan e le ombre del potere
di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali
Ci sono storie che non possono restare semplici fatti di cronaca. Ci sono vicende che aprono squarci profondi nella nostra coscienza collettiva. Il rapimento e le torture subite da Michael Valentino Teofrasto Carturan, giovane milionario italiano e trader di criptovalute, non sono solo un episodio di violenza urbana. Sono il riflesso cupo di una società che ha smarrito alcuni dei suoi riferimenti più vitali: fiducia, legalità, protezione. Carturan è stato attirato in un appartamento nel cuore di SoHo, forse da chi portava una divisa. I suoi presunti aguzzini? Due detective del dipartimento di polizia di New York, ora sospesi e indagati. Uno di loro – secondo quanto riferito – sarebbe parte della scorta personale del sindaco. Una presenza che, se confermata, trasforma il crimine in una parabola simbolica: quella del potere che devia, della protezione che si corrompe, della legge che si fa ombra.
Quando chi dovrebbe proteggere diventa carnefice. Nelle fondamenta stesse del vivere civile c’è un patto: lo Stato tutela i suoi cittadini, e in cambio riceve fiducia e obbedienza. Ma cosa succede quando questo patto viene violato non da un delinquente, ma da chi dovrebbe essere il suo garante? La sociologia ci offre strumenti per analizzare, ma davanti a casi come questo siamo prima di tutto umani, colpiti, scossi, indignati. Max Weber ci ha insegnato che il potere è legittimo solo se è ritenuto tale da chi lo subisce. Quando un agente, simbolo stesso della sicurezza, si trasforma in carnefice, il tradimento non è solo individuale: è istituzionale. È un crollo morale che ci lascia senza difese. In un’epoca in cui la sfiducia verso le istituzioni è già acuta, episodi come questo rischiano di diventare emblemi di un cedimento più profondo, sistemico.
Una nuova forma di predazione. Carturan, secondo le indagini, sarebbe stato torturato per ottenere l’accesso al suo portafoglio Bitcoin. Non per vendetta, non per una faida, ma per una password. Un codice. Un insieme di cifre invisibili che, nel mondo digitale, possono valere milioni. È la nuova materialità del potere economico: smaterializzata, ma devastante. Si ruba per dati, si tortura per stringhe alfanumeriche. Il corpo di Michael, ferito e sanguinante, visto mentre fugge scalzo per le strade di New York, è una delle immagini più potenti di questa vicenda. È l’immagine di una solitudine estrema. È la testimonianza muta e urlante di un dolore che va oltre il fisico. Nella sociologia del corpo, il dolore è anche un linguaggio sociale. E qui, quel corpo diventa atto d’accusa. Parla per tutti noi.
Il potere che oscura sé stesso. Non è la prima volta, purtroppo, che la divisa viene macchiata da crimini. Dalle torture ad Abu Ghraib al pestaggio di Rodney King, la storia ci ha già insegnato quanto fragile possa essere il confine tra potere e abuso. Ma ogni volta, ogni singola volta, ci si apre una ferita nuova. Più che dalla violenza stessa, siamo colpiti dalla sua origine: istituzionale, sistemica, avallata dal silenzio o dall’omertà. Oggi il mondo osserva con occhi nuovi: i media moltiplicano la visibilità dei fatti, ma la visibilità non basta. L’indignazione, se non si trasforma in trasformazione, rischia di diventare solo spettacolo.
Una crisi della fiducia, non della cronaca. Il caso Carturan ci interroga come cittadini, ma ancor più come comunità. Quando chi detiene il potere agisce nell’ombra per fini personali, si incrina qualcosa di molto più grande della legge: si sgretola il senso stesso dell’appartenenza. In un mondo già fragile, dove le relazioni sono spesso mediate da algoritmi e interessi, episodi come questo ci chiedono un nuovo patto etico.
Oltre Carturan: un simbolo di sopravvivenza. Michael è sopravvissuto. È fuggito. Ha chiesto aiuto. E ora, con il suo corpo e la sua storia, può diventare simbolo. Simbolo della resistenza dell’umano, della forza della verità, dell’urgenza di non restare indifferenti. Questo caso non chiede solo giustizia penale. Chiede memoria, consapevolezza, presa di coscienza. La sociologia non è spettatrice. È parte della cura. È lente e voce. È il sapere che si fa carne, che legge le fratture del presente per provare a costruire un domani diverso. Il caso Carturan ci invita, ancora una volta, a chiederci: cosa succede quando lo Stato tradisce il suo volto umano? Chi resta a difendere chi non ha difese E soprattutto: che cosa possiamo fare, oggi, per ricucire la fiducia spezzata?