Donne di serie B. Quando la vita pesa meno del silenzio

Donne di serie B. Quando la vita pesa meno del silenzio

di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali

Denisa Maria Adas aveva 30 anni. Forse le piaceva il profumo del caffè al mattino. Forse cantava sottovoce mentre si vestiva per uscire. Forse sognava una vita diversa, più gentile, meno tagliente di quella che le è stata concessa. Di Denisa sappiamo solo la fine: un corpo martoriato, una testa bruciata per cancellarne il volto, la vita chiusa in una valigia come si fa con le cose che non servono più. È successo vicino a Montecatini Terme, venti giorni dopo la sua scomparsa da Prato. Eppure, non è successo davvero. Perché quando la notizia è emersa, il rumore è stato flebile, quasi una nota stonata in un coro distratto. Nessuna marcia. Nessuna indignazione collettiva. La cronaca ha raccontato i dettagli crudi, ma poi è scivolata oltre. Forse perché Denisa faceva l’escort. Forse perché era rumena. Forse perché, per alcuni, la sua voce valeva meno di altre.

L’indifferenza come violenza collettiva. Denisa non è la sola. Dietro ogni nome dimenticato, ogni corpo lasciato senza volto, c’è una domanda che ci rifiutiamo ancora di affrontare: quanto vale la vita di una donna che non rientra nei confini della rispettabilità sociale?

Se la vittima è una studentessa, una madre, una “figlia modelloâ€, il dolore scuote. I media corrono. Le piazze si riempiono. Ma se la vittima è una sex worker, una migrante, una donna sola, se la sua esistenza ha infranto i codici morali dominanti, allora la sua morte viene osservata con distrazione. Quando non con sottintesa colpevolizzazione. E questa è una seconda morte. Più lenta. Più crudele. È la morte del ricordo, la cancellazione della voce, la sepoltura simbolica.

Corpi che parlano, società che tace. Ci sono storie che il tempo ha provato a seppellire, ma che ancora ci parlano. Artemisia Gentileschi, pittrice straordinaria del Seicento, fu violentata dal suo maestro, Agostino Tassi. A soli 17 anni osò testimoniare pubblicamente davanti a un tribunale dominato da uomini. Subì torture per “verificare†la sua verità. Venne colpevolizzata, umiliata, derisa, messa alla gogna. Ma non tacque. Non si nascose. Quattro secoli dopo, la storia si ripete. Cambia la scenografia, ma non il copione. Le donne che si sottraggono al ruolo di vittime silenziose – che pretendono parola, giustizia, libertà – vengono punite due volte. Prima dalla violenza fisica. Poi da quella simbolica dell’indifferenza, dell’ostracismo sociale, del giudizio morale. E così, mentre il femminicidio si consuma a ritmi implacabili (una donna uccisa ogni tre giorni, secondo l’ISTAT), ci interroghiamo ancora su chi sia “meritevole†di pietà. Ma è in questo distinguo silenzioso, in questa selezione affettiva, che si nasconde la violenza più insidiosa: quella che giustifica, quella che assolve, quella che cancella.

Donne di serie B: una costruzione sociale. Quando diciamo che ci sono “donne di serie Bâ€, stiamo parlando di un meccanismo sociale profondo che gerarchizza anche il dolore. Un dispositivo simbolico attraverso cui la società assegna valore alle vite: alcune devono essere protette, altre possono essere sacrificate. Secondo Nils Christie, l’“ideale vittima†è giovane, innocente, rispettabile, indifesa. È quella figura che genera automaticamente empatia e compassione. Tutto ciò che Denisa, agli occhi di una società moralista e classista, non era. E allora il suo dolore diventa invisibile. La sua morte, un fastidio. La sua umanità, una questione secondaria.

Intersezionalità della violenza. La violenza su Denisa non è stata solo sessista. È stata razzista, classista, moralista. È l’intersezione di oppressioni di cui parlava Kimberlé Crenshaw: il punto in cui il sessismo si intreccia con la povertà, l’immigrazione, la marginalità. Una donna migrante, sex worker, sola, è meno credibile, meno degna, meno umana nel nostro immaginario. È vista non come una persona, ma come un errore sociale da correggere o cancellare. Ed è questa la violenza più strutturale: quella che nega l’umanità.

Una società che guarda, ma non vede. Se Denisa fosse stata tua figlia? Tua sorella? Una tua amica? Saremmo ancora così pronti a voltare pagina? La sociologia non serve solo a spiegare. Serve, prima ancora, a farci vedere. A mostrarci come l’indifferenza non sia mai neutra, ma una scelta sociale e politica. Ogni silenzio è una legittimazione implicita. Ogni oblio è una forma di complicità. E allora chiediamoci: chi siamo noi quando non guardiamo? Cosa stiamo legittimando ogni volta che taciamo? Ogni volta che un corpo viene chiuso in una valigia… e poi, anche nella nostra coscienza?

La memoria è un atto di giustizia. Ricordare Denisa è un gesto radicale, perché sfida la narrativa selettiva del lutto. Non perché la sua morte conti più di altre, ma perché è stata ritenuta meno importante, meno degna di parola, di attenzione, di commozione collettiva.

E proprio per questo deve essere ricordata. Perché finché ci saranno donne il cui dolore non fa notizia, il cui volto può essere cancellato senza clamore, non potremo parlare davvero di uguaglianza. La memoria è un atto politico. È resistenza all’oblio, lotta contro la gerarchia del dolore, rifiuto della complicità emotiva con l’ingiustizia. È ciò che restituisce dignità ai corpi violati, voce alle esistenze negate, senso alla parola “giustiziaâ€.

Se non vale per tutte, non è giustizia. Una società giusta non è quella che piange solo alcune vittime. È quella che riconosce pari valore a ogni corpo, a ogni storia, a ogni volto. Anche quando quel volto è stato bruciato per non essere riconosciuto. Anche quando quella storia è scomoda. Fino a quando continueremo a dimenticare Denisa, continueremo a sottoscrivere una gerarchia dell’empatia, della pietà, della vita. Continueremo ad essere spettatori, non cittadini. Complici, non indignati.

Ogni volta che ci indigniamo solo per alcune, contribuiamo a dimenticare tutte.

E quando dimentichiamo, siamo parte del problema. Non osservatori.

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