California 2025. Anatomia di una frattura americana
di Cristina Di Silvio esperta di relazioni internazionali
“Il vero dramma delle società moderne non è l’assenza di legge, ma l’eccesso di legittimità che si trasforma in dominio.â€
— Michel Foucault
Los Angeles, 6 giugno 2025. Il quartiere del Fashion District si risveglia sotto il rombo degli elicotteri federali e le sirene della polizia migratoria. In poche ore, 118 persone vengono arrestate in una maxioperazione dell’ICE. Ufficialmente, si tratta di contrasto all’immigrazione irregolare. In realtà , è l’innesco di una crisi profonda, che trasforma la California in un campo di tensione tra autorità federale, autonomia statale e diritto civico. Una tensione che si insinua sotto la pelle dell’America e la costringe a guardarsi allo specchio. Ciò che accade nei giorni successivi non è soltanto cronaca: è sintomo. Le proteste si diffondono, articolate, intelligenti, organizzate da una generazione cresciuta dentro le reti digitali e fuori dalle narrazioni ufficiali. Coordinamento tattico via Telegram, sorveglianza dal basso con droni civili, dirette live come forma di autodifesa e testimonianza. Si manifesta per i diritti, sì — ma anche per il diritto di esistere, di essere ascoltati, di non essere trattati come minacce a prescindere. Il 7 giugno, il presidente Trump ordina l’invio di 2.000 unità della Guardia Nazionale a Los Angeles. Non vi è consenso da parte del governatore Gavin Newsom. Nessun disastro nazionale è stato dichiarato. Nessun Insurrection Act invocato. Solo un ordine verticale che scavalca il patto federale e riapre una ferita antica: quella del controllo centrale contro l’autonomia dei territori. Si tratta forse del gesto più eclatante di rottura costituzionale dagli anni della desegregazione forzata. Due giorni dopo, San Francisco. La protesta arriva davanti alla sede dell’ICE su Sansome Street. Inizia pacificamente, ma la notte porta con sé l’escalation: vetrine infrante, agenti feriti, 154 arresti. Le autorità locali cercano di contenere, non reprimere. Ma l’equilibrio è fragile. E intanto, la cittadinanza osserva e si interroga: chi controlla il controllo? Il richiamo ai grandi momenti di rottura del passato americano è inevitabile. La California è stata, nel Novecento, un laboratorio di sogni e di tensioni: dalla controcultura degli anni Sessanta alle Black Panthers di Oakland, dal movimento chicano alle rivolte di Watts e Rodney King. Ma ciò che accade nel 2025 ha un’altra natura. Non è solo un conflitto sociale. È una crisi epistemica: la rottura del linguaggio comune tra governanti e governati. La cesura tra ciò che si proclama essere giusto e ciò che si vive come ingiusto. Nel cuore di questa frattura c’è una questione fondamentale: chi ha diritto di decidere cos’è l’ordine? E a quale costo si impone quell’ordine, quando la legittimità vacilla? La legalità , in teoria, dovrebbe essere il confine tra libertà e arbitrio. Ma la decisione di impiegare forze militari senza attivare gli strumenti legali previsti — in violazione del Posse Comitatus Act del 1878 — trasforma la legge in strumento di potere, non più di protezione. Il diritto si piega alla prassi, la prassi diventa normalizzazione. E ciò che era eccezione si fa routine. Sociologicamente, il dato è chiaro: l’apparato statale, di fronte a una società sempre più fluida, diseguale e iperconnessa, risponde irrigidendosi. L’ibridazione tra forze civili e strumenti militari — dai blindati antisommossa ai protocolli C-UAS per neutralizzare droni civili — rivela la verticalizzazione della governance. Una risposta di tipo militare a un malessere di tipo sociale. L’urban disorderescalation — la nuova morfologia del disordine — è figlia del nostro tempo: liquida, decentralizzata, pervasiva. Le città non sono più semplici scenari, ma territori cognitivi, luoghi dove il conflitto avviene non solo per le strade ma anche nella sfera della percezione, della narrazione, della memoria. Cosa significa, allora, militarizzare la sicurezza interna in assenza di una minaccia reale, dichiarata, definibile? Significa forse ammettere che la paura è diventata forma di governo? Gli Stati Uniti, mentre riorientano la propria strategia geopolitica verso il Pacifico, si trovano scoperti nel proprio ventre interno. La frattura californiana non è una devianza locale: è una crepa nella narrazione di sé. Una nazione che si presenta come “faro di democrazia†non può permettersi di spegnere le luci nelle sue strade per paura di ciò che esse mostrano. “Nessuna società può essere realmente libera se i suoi cittadini vivono nella paura dello Stato.†Hannah Arendt. Questa è la sfida: non quella della sicurezza, ma quella del senso. Le proteste della California, come un sismografo sociale, rivelano le faglie profonde di un Paese che ha delegato troppo alla forza e troppo poco all’ascolto. Un Paese che ha trasformato il dissenso in emergenza, e l’emergenza in norma. Se la frattura californiana non verrà riconosciuta per ciò che è — un campanello d’allarme della fragilità democratica — rischia di diventare paradigma. Un modello di gestione del conflitto replicabile, ma insostenibile. Una maschera di controllo calata su una società in ebollizione. Il vero rischio, oggi, non è il caos. È la gestione del disordine attraverso la paura, l’amministrazione del dissenso come minaccia. E quando questo accade, non siamo più dentro una democrazia. Siamo già entrati in qualcos’altro.