MURI CONTRO L’ESODO

MURI CONTRO L’ESODO

Quando la disperazione sfida la legge: contenimento migratorio, militarizzazione dei confini e ordine globale

di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali

Le grandi crisi del nostro tempo non si misurano più soltanto in soldati o carri armati, ma nel numero crescente di uomini, donne e bambini costretti a fuggire. E mentre le telecamere globali si concentrano sul fronte ucraino, sulle provocazioni russe e sul riarmo sistemico dell’Occidente, una guerra silenziosa si combatte altrove: lungo i confini dell’America e dell’Africa, dove la disperazione scavalca leggi, muri e trattati. La gestione migratoria contemporanea è diventata una vera e propria architettura della sicurezza globale. La questione non è più “se” contenere, ma “come” farlo: e la risposta, sempre più spesso, è l’uso degli strumenti della difesa, del diritto d’emergenza e della deterrenza militare. Il confine tra il Sud globale e il Nord geopolitico diventa così una nuova linea del fronte, non ufficiale ma operativa, in cui il diritto internazionale si trova sospeso tra sovranità statale e obblighi umanitari. Negli Stati Uniti, il confine con il Messico è stato trasformato da spazio amministrativo a dispositivo securitario. Dopo l’11 settembre, con il Patriot Act (2001) e la creazione del Department of Homeland Security, la gestione migratoria è stata formalmente inclusa nella dottrina della difesa nazionale. L’introduzione della “Zero Tolerance” sotto l’amministrazione Trump ha segnato il punto di rottura: la separazione dei minori dai genitori e la detenzione sistematica non erano solo strumenti repressivi, ma segnali simbolici di una nuova dottrina, fondata sulla deterrenza pubblica. Militarmente, il confine è stato presidiato dalla Guardia Nazionale e, in più occasioni (2018, 2022), anche dal Pentagono, con operazioni come Faithful Patriot che prevedevano logistica, sorveglianza e supporto all’installazione di barriere. La Section 212(f) dell’Immigration and Nationality Act e l’uso controverso del Title 42 (strumento sanitario usato per espellere migranti durante la pandemia) hanno completato il quadro normativo emergenziale. Si tratta di un’architettura normativa e operativa in tutto e per tutto simile a una zona di guerra ibrida, dove i confini si difendono come si difende un perimetro bellico, e la mobilità diventa il nuovo nemico interno. In Africa, la geografia migratoria è dettata da necessità primarie: sopravvivere alla guerra, al cambiamento climatico, al collasso istituzionale. I flussi sono per lo più interni o intra-continentali, ma la pressione esterna – in particolare dell’Unione Europea – ha trasformato molti Paesi di transito in bastioni di contenimento esternalizzato. In altre parole, le frontiere africane sono diventate i “muri remoti” dell’Europa. Dal Processo di Khartoum al Valletta Action Plan, passando per i fondi del Trust Fund for Africa, l’UE ha investito miliardi per finanziare addestramento, equipaggiamento, sorveglianza e raccolta biometrica in Paesi come Niger, Libia e Ciad. In Libia, la Guardia Costiera, supportata da missioni europee come EUBAM Libya, ha intercettato e respinto migliaia di migranti verso centri di detenzione informali, spesso controllati da milizie. Amnesty International e altre ONG hanno documentato torture, violenze sessuali e scomparse forzate. Nel Sahel, operazioni come EUCAP Sahel Niger, AFRICOM (Stati Uniti) e Barkhane (Francia, fino al 2022) si sono sovrapposte a quelle migratorie, creando un ambiente dove l’antiterrorismo e la gestione dei flussi si confondono. Il risultato è un paesaggio securitario frammentato, dove l’intento ufficiale è la stabilizzazione, ma l’effetto concreto è la deviazione dei migranti verso rotte sempre più pericolose e meno controllabili. Il linguaggio della sicurezza – strategica, territoriale, normativa – ha una grammatica comune, che si estende dai confini europei orientali a quelli sudamericani e africani. La guerra in Ucraina ha mostrato come le frontiere siano tornate ad essere fulcro della sovranità armata, ma anche della mobilità umana disperata: milioni di rifugiati accolti (giustamente) in Europa, mentre milioni di africani e latinoamericani restano bloccati in una “terra di nessuno” giuridica. Qui emerge la contraddizione centrale: l’accoglienza dei rifugiati ucraini ha rivelato che esistono strumenti, risorse e volontà politica per gestire flussi umani complessi. Ma tale approccio è selettivo, geopoliticamente condizionato. Dove il rifugiato è percepito come parte di un conflitto “amico”, l’umanità prevale. Dove è visto come residuo del collasso globale, prevale la paura. Quella a cui assistiamo oggi non è una crisi migratoria, ma una ridefinizione degli equilibri di potere globali attorno al tema della mobilità. I confini non sono più solo barriere fisiche: sono strumenti geopolitici. Il controllo del movimento umano è ormai parte integrante delle dottrine di difesa e delle strategie di influenza. Dall’Ucraina al Sahara, dagli altopiani del Guatemala alla Valle del Rio Grande, la mobilità è diventata un campo di battaglia dove si decidono non solo i destini individuali, ma l’identità stessa degli Stati. Difendere i confini è un diritto sovrano. Ma costruire un ordine internazionale basato sulla dignità è un dovere collettivo. I modelli osservati negli Stati Uniti e in Africa – radicati nel contenimento e nella militarizzazione – mostrano i limiti di una strategia fondata esclusivamente sul controllo. La disperazione non conosce confini né norme. E quando la legge non riesce a contenere la fame, la guerra o il collasso, l’uomo si muove. Sempre. Lo ha fatto nei secoli, lo farà ancora. La vera sfida per le potenze globali non è fermare questo movimento, ma decidere se accompagnarlo con giustizia o affrontarlo con paura.

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