L’anima dei luoghi. Di Pasquale Martucci

L’anima dei luoghi

di Pasquale Martucci

Percorro questa terra antica del Cilento in un silenzio quasi devoto, ne sento il mito e l’abbraccio materno allo stesso tempo eppure questo sentimento non mi contiene, averto una mancanza, una vertigine di estraniamento. Interrogo le mute presenze del passato e non trovo una risposta, solo immagini che cercano un dialogo: è l’anima del posto che non trova un luogo e con la sua evanescenza chiede alla mia esistenza un corpo da indossare per chiudere, esprimendolo, un conto sospeso, un rancore, un risentimento per il mancato ascolto”.

(L. Leuzzi, “Un’anima, un luogo. Contributo antropologico per un processo di individuazione nel Cilento e nel Vallo di Diano”, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2010, p. 65)

Chi scrive è l’autore di un libro importante, di cui si è discusso lo scorso 4 febbraio 2023 a Roccadaspide, presso la Sede del “Centro Contemporaneo delle Arti del Cilento”, nell’ambito delle iniziative: “La bottega dell’anima. Incontri empatici”.

Invitato dagli organizzatori dell’evento, Luigi Leuzzi e Menotti Lerro, ho a lungo argomentato su molte tematiche legate al territorio, che poi sono quelle che accomunano i nostri interessi culturali e di ricerca, a partire dall’identità cilentana in chiave evolutiva di cui siamo convinti assertori.

La centralità della discussione ha riguardato il concetto di anima dei luoghi che si connette al silenzio rispettoso, alla voglia di mettersi al servizio del territorio, al rapporto di estraniamento per via della modernità ma al tempo stesso di attenzione al passato, di circospezione nell’affrontare l’incontro con il circostante, con le immagini che sono lontane, che sembrano enigmatiche ma a cui tendere, affidarsi, ritornare per renderle nitide e per scoprire e far scoprire la loro esistenza.

Qui si vede l’uomo/Leuzzi che ragiona intorno all’essenza del Cilento, praticando un approccio con l’anima, sgombra e partecipata. Se essa è intesa come “soffio”, “vento”, “respiro”, è collocata nella parte vitale e spirituale di un essere vivente, che vede il singolo rapportarsi alla collettività, attraverso il processo di individuazione, di realizzazione del sé individuale in relazione con quello comunitario. Su queste basi si delinea la modalità di conoscenza, in quanto l’anima è la predisposizione dell’uomo a cogliere i significati più profondi delle cose per comprendere le tracce della storia, dal presente al futuro.

L’anima di un luogo mi riconduce al Genius Loci, che corrispondeva al concetto di dàimon greco, per Socrate lo spirito-guida che assiste l’uomo nelle sue decisioni. I luoghi hanno un’anima ed è nostro compito scoprirla, come sosteneva James Hillman quando affermava che la stessa idea di “anima” recupera la nozione di una natura animata che assorbe i pensieri e le tradizioni degli uomini che la abitano da millenni. Per anima dei luoghi si intende anche il legame spirituale con le cose che si incontrano perché il luogo siamo noi, e ce lo portiamo dentro magari senza saperlo.

Il Genius Loci collegava la dimensione materiale a quella spirituale, rendendo sacro lo spazio che sotto la sua influenza risultava abitato da un soffio divino. Le popolazioni antiche avevano a cuore il rispetto dei propri numi tutelari e riempivano di sacralità i luoghi che occupavano, per non esporre la comunità al pericolo, avendo rispetto del loro spazio vitale e dell’armonia nel mondo.

Leuzzi si interroga da tempo sui significati e i simboli del passato, resi evidenti attraverso una grande esperienza e conoscenza della ricerca sul campo in veste di osservatore partecipante. Ciò gli permette di delineare un percorso che rimanda al passato con un approccio che parte dal presente per leggere l’identità di un territorio. Offre esempi riconducibili al contesto, senza tuttavia trascurare gli approdi delle varie scienze, storia, sociologia, filosofia, per poi consolidarsi in una antropo-archeologia che rende meglio il senso del tutto.

Per la ricostruzione delle sue tesi si avvale dell’archeologia minore che serve a riannodare i legami. Le pietre e i sassi se ben letti rivelano il luogo delle origini: l’Antéce (per le valenze simboliche) e tutte le statue-menhir di cui si ha presenza nel territorio; la Dea Madre, cui riserva un volume intero intorno al culto della Madre Terra. Poi ci sono tanti esempi nel territorio: il Dio Danzante a Vatolla; la Tomba del Tuffatore a Paestum; la Tomba del Cavaliere Nero (opera lucana, del IV sec. a.C.). Sono tutti elementi che vengono studiati e poi rilevati per affermare la ricchezza degli antefatti in un territorio che spesso si affida solo alle evidenze palpabili senza una conoscenza effettiva. Le pietre parlano, e l’autore sa ascoltarle, abbandonando la logica razionalizzante per accettare anche quella emozionale, l’anima e non solo l’animus di ogni individuo. Qui le opere d’arte sono memoria di un passato collettivo e comunitario, e vanno colte se c’è la produzione dei cambiamenti nel nostro intimo per accettare il profondo.

È interessante individuare il concetto di cultura come conoscenza, arte, credenze, e tutte le capacità e abitudini dell’uomo come membro di una società. In tal senso, l’anima si inserisce nei processi storico-sociali che hanno costruito l’anima di questa terra, con l’alternarsi delle culture che si sono succedute. Esse hanno assorbito e sintetizzato gli elementi della cultura indigena e di quella esterna che si è affacciata nel corso dei millenni, costituendo un trait d’union unico che varia di paese in paese ma che accomuna tradizioni, usi, costumi, comportamenti, l’anima.

L’autore ha compiuto un lavoro di ricerca epistemologica partendo dalle potenzialità di cui il Cilento dispone, che possono essere la base per il futuro a patto che si conoscano gli elementi storici-antropologici che hanno costituito nel tempo la stessa identità e le hanno permesso, salvaguardando i valori, di non snaturarsi del tutto.

In questo territorio, le condizioni di arretratezza sono evidenti: non c’è stato sviluppo perché c’è stata una vocazione alla staticità, all’emarginazione, ad un’appartenenza che è parsa del tutto chiusa in se stessa. Le analisi formulate non sono entrate nello specifico delle condizioni; non si sono studiati gli sviluppi osservando l’interno del territorio a partire ad esempio dalla protostoria e, nel suo evolversi, dalle innovazioni prodotte dalle genti greche, lucane, romane, oltre che le dinamiche dei popoli successivi. In questo percorso, c’è stato qualche risveglio, poi un impoverimento e un consequenziale arroccamento, il processo di destorificazione e di presentificazione, la ricerca di un più solido radicamento.

L’assenza del processo di identificazione/affrancamento ha prodotto una chiusura difensiva verso il conservatorismo e la stasi. Ed allora i luoghi non sono stati colti e valorizzati, perché chi sta oggi nel Cilento non legge i suoni, i silenzi, le pietre del territorio. E soprattutto non corrisponde, non alza lo sguardo per ascoltare e parlare il linguaggio abituale dei gesti e dei segni che sembrano essere caduti nell’oblio.

Una strada percorribile sarebbe quella di offrire correlazioni tra immagini artistiche e simbolismo sotteso, per permettere una transizione dai valori atavici verso una modernità che richiede la capacità di cogliere le eredità culturali ed antropologiche del passato.

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