Identità evolutive – Studi e ricerche sul Cilento

Identità evolutive

Studi e ricerche sul Cilento

L’ultimo libro di Pasquale Martucci tra la passione per i luoghi e la necessità della concettualizzazione sociologica

di Sergio Mantile

L’ultimo saggio di Pasquale Martucci (nel libro che contiene anche una interessante analisi di Luigi Leuzzi sulla simbologia storica del Cilento) conferma i caratteri di un sociologo atipico, che opera tra la sociologia accademica e la sociologia professionale.

Questo, primariamente, lo tira fuori da una lunga tradizione di ricercatori dilettanti di fatti e cronache locali, che, nel migliore dei casi, quando siano particolarmente esperti e scrupolosi, oltre che preservare meritoriamente la memoria della propria cittadina, forniscono talvolta a studiosi professionali materiali o spunti per più ampie generalizzazioni. Diversamente, tale tipologia di esperti si muove quasi sempre sull’orlo del folklore, della insufficienza teorico-metodologica e dell’iperlocalismo, ossia di una narrazione quasi esclusivamente interna al territorio, con scarsa o nessuna considerazione per i fenomeni esterni e comunque incidenti.

Non a caso, la tradizione appena citata è così radicata nel senso comune, da aver ispirato il preconcetto, spesso anche nel lettore colto, e relativamente a titoli e tematiche locali, di contenuti comunque afferenti ad un genere minore, non molto lontano da quello dei viaggi e delle guide turistiche.

In realtà, il sottotitolo del libro, Studi e ricerche sul Cilento, indica la base concreta, il referente empirico delle indagini, la cui elaborazione concettuale ha portato alle Identità evolutive del titolo vero, come generalizzato esito teorico, e quindi generalizzabile per altre ricerche.

Il rapporto tra la relativamente limitata base geografico-materiale dello studio e l’ampiezza dell’astrazione elaborata può ricordare il rapporto tra la piccola città di Weston Parva, dove Norbert Elias e John L. Scotson svolsero una ricerca nel 1965 sulle dinamiche sociali tra gruppi consolidati e residenti recenti. A seguito di quella indagine, i due sociologi elaborarono il binomio concettuale di “established e outsiders”, offrendo importanti intuizioni sui processi di esclusione sociale e di coesione interna dei gruppi.

La similitudine, oltre alla esteriore differenza di ampiezza tra piani empirici e piani teorici, riguarda due altri punti nodali: l’obiettivo specifico della ricerca (a che cosa serve o a chi può servire direttamente, immediatamente, questa ricerca) e l’obiettivo generale della ricerca (ossia il progresso teorico-metodologico della sociologia).

Martucci, (e l’altro autore, Luigi Leuzzi, in termini ermeneutici e di mitologia archeologica) ha un obiettivo concreto: ritrovare e rendere riconoscibili nei territori cilentani una dimensione identitaria comune (e anche composita) che non riproponga la cristallizzazione più o meno inattuale di tratti culturali da rendere, eventualmente, ancora più rigidamente chiusi ad ogni evoluzione adattativa. Anche perché, peraltro, come evidenziato da Martucci in altri suoi studi, il frammentato heritage culturale del Cilento non è riuscito a trattenere sui territori i suoi abitanti, attratti altrove da opportunità economiche, lavorative, sociali, e ludico-ricreative.

L’obiettivo dello studio è la salvaguardia funzionale di un organismo vivente – non di un museo a cielo aperto – che non si può perseguire con eruditi e generici richiami al valore storico-culturale dei luoghi. Qui torna utile ricordare Ferrarotti quando, a proposito di concetti e metodi, dice: “Per Weber la metodologia è come un paio di scarpe: o serve per camminare o lo si butta via. Oggetto e metodo di indagine appaiono inscindibili. Parla sempre di sostanza sociale. Nessuna dicotomia fra concetti analitici e teoria sostanziale”[1].

Nello stesso modo, Martucci sa di doversi dotare di una strumentazione d’analisi, guidata da un concetto che trae, con “immaginazione sociologica”[2], anche dalla storia arcaica, e con il quale giustificare tanto la stratificazione di segni e valori storici, quanto la plasmabilità evolutiva del loro paradigma identitario. Un paradigma che riaccenda “dal di dentro” la ricchezza dei territori cilentani, rilanciandola in termini di processo evolutivo, più che di sviluppo quantitativo (che rischierebbe di cancellare per sempre la persistenza ultra millenaria di un senso dei luoghi che è ancora tangibilmente percepibile nel paesaggio, nelle culture, negli odori e nei racconti).

Perciò, Martucci risale alla millenaria filosofia di Elea, per rintracciarvi una chiave ideale nella coesistenza di una doppia prospettiva: quella dell’immutabilità e quella dell’eterno fluire, del panta rei. Ecco che qui, nei margini della mutabilità orientata, ovvero di una possibile evoluzione, Martucci trova il significato di una identità evolutiva. L’esito di un processo di senso specifico, che integra nel suo divenire plurimillenario sia “tradizione e caratteristiche tipiche” che “innovazione e futuro”. Questo non come una esortazione generica, ma come obiettivo operativo, perché “è essenziale pensare ad interventi per far vivere ogni luogo, permettendo di avere uno stretto contatto con la ricca cultura, facendo crescere, attraverso la formazione ed una nuova consapevolezza la popolazione di questi posti marginali [corsivo mio].

“Nel Cilento, la novità è oggi rappresentata dalla voglia di vivere la cultura e le iniziative che si svolgono anche durante l’anno…L’approccio per una inversione di tendenza dovrebbe essere di rispettare e visitare i luoghi più periferici per accertarne l’esistenza, attraversarli e scoprirli; incontrare le persone, ascoltare e conoscere la loro cultura, che è cultura del territorio; rilevare le risorse costruite intorno ad una storia millenaria”.

Lo studio profondo, stratificato negli anni di Martucci, che ha partecipato anche a diverse ricerche del CNR sul Cilento (uno studio quindi serio, non impressionistico, ed in questo “accademico”) si proietta direttamente nelle ipotesi operative per vivificare le antiche basi culturali cilentane e spingere l’identità di cui sono il portato ad evolvere in senso vitale.

Un libro molto bello, da leggere e rileggere, possibilmente anche in ambito universitario, perché, così come lega le radici millenarie della cultura cilentana al presente, nello stesso modo utilizza la tensione metodologica seria per orientare adeguatamente l’impegno professionale nel territorio.

 

  1. Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, 1974, Roma-Bari, Edizioni Laterza
  2. Che non vuol dire, ovviamente, fantasia. Cfr. Wright C. Mills, L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 1995 (Prima ed. Oxford University Press, New York, 1959)

 

adminlesociologie

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