Cuori d’acciaio: quando i motociclisti diventano i guardiani dell’infanzia tradita

Cuori d’acciaio: quando i motociclisti diventano i guardiani dell’infanzia tradita

di Cristina Di Silvio esperta di relazioni internazionali

Ci sono storie che rompono gli schemi, che smentiscono gli stereotipi con la coerenza dei gesti concreti e con la forza silenziosa della presenza. La storia di B.A.C.A. – Bikers Against Child Abuse International – è una di queste. Un’organizzazione composta da motociclisti che ha scelto di mettersi accanto ai bambini vittime di abusi per diventare, con il corpo e con il cuore, la loro armatura. Non una favola moderna, ma una realtà strutturata, riconosciuta e rispettata anche dalle autorità. Il biker, nell’immaginario collettivo, è una figura liminale. È ribelle, solitario, spesso temuto. Indossa pelle nera, occhiali scuri, porta con sé il rombo di un motore e una certa aura di pericolo. Ma in questo caso, proprio quell’immaginario viene ribaltato e utilizzato come strumento di cura. I motociclisti di B.A.C.A. incutono rispetto per rassicurare, si fanno sentinelle per restituire ai bambini ciò che è stato loro tolto: la sicurezza, la fiducia, il senso di avere qualcuno dalla propria parte. Questi uomini e donne non sostituiscono la giustizia, ma si affiancano a essa. Collaborano con funzionari pubblici, servizi sociali e tribunali. Offrono però qualcosa che nessun protocollo potrà mai garantire fino in fondo: la presenza. Una presenza fisica, stabile, visibile, che si traduce in un messaggio forte: “Adesso questo bambino non è più solo”. Quando un minore viene abusato, spesso non subisce solo un danno fisico o psicologico. Subisce una frattura profonda nel proprio senso di appartenenza. Il mondo diventa un luogo ostile, gli adulti diventano inaffidabili. È in questo vuoto che si inserisce l’azione di B.A.C.A., offrendo una nuova narrativa: il bambino entra a far parte di una nuova famiglia, una rete umana pronta a sostenerlo. Durante la cerimonia di affiliazione, riceve un giubbotto, un soprannome, e il sostegno tangibile di una comunità che non ha intenzione di lasciarlo indietro. Questo ha un impatto psicologico enorme. Il bambino da invisibile diventa visto, da vittima passiva diventa parte attiva di un gruppo che lo protegge. È un cambiamento identitario, che rafforza il senso di sé e contrasta direttamente la logica dell’abuso, che si nutre proprio della solitudine e del silenzio. Dal punto di vista sociologico, B.A.C.A. rappresenta una forma di risposta collettiva a un bisogno che, purtroppo, le istituzioni faticano a soddisfare pienamente. Non per negligenza, ma per limiti strutturali. Le forze dell’ordine, i tribunali, i servizi sociali hanno regole, scadenze, carichi di lavoro. Ma la paura non ha orari d’ufficio. Un bambino può sentirsi minacciato di notte, nel rumore di un’auto, o nel momento in cui deve entrare in un’aula di tribunale a raccontare ciò che gli è stato fatto. In quei momenti, i biker di B.A.C.A. ci sono. Si presentano in gruppo, silenziosi, ma visibilissimi. Occupano uno spazio sociale e simbolico fondamentale: mostrano che il male non ha più strada libera, che il bambino ha alle spalle una comunità che non ha paura di farsi vedere. Secondo Pierre Bourdieu, la protezione sociale si nutre di un “capitale sociale” fatto di relazioni fiduciarie e presenza collettiva, in grado di restituire ai soggetti la capacità di agire nel mondo (1979). B.A.C.A. concretizza questa visione: i biker incutono rispetto per rassicurare, riconfigurano un trauma non solo come evento individuale, ma come disgregazione del tessuto sociale. Offrono una rete di persone pronte a presidiare il quotidiano, a restituire ai bambini ciò che è stato loro tolto—fiducia, senso di appartenenza, potere di testimoniare. Un caso esemplare arriva da Maine, come racconta il “NewsCenter Maine”. Un bambino sotto scorta continua, da parte del padre abusante, non osava uscire di casa. Il gruppo locale ha deciso di agire: due membri designati erano lì, presenti, pronti a rispondere a qualsiasi chiamata. Lo scopo non è diventare poliziotti, spiega Bubba, fondatore del capitolo: “Non siamo terapeuti, ma chi crea relazioni sicure”. Hanno presenziato in aula, formato un “muro umano” tra il minore e l’abusante, e hanno aiutato il bambino a sentirsi un “eroe”, non più un fantasma nella propria storia   Una testimonianza toccante arriva da Rhythm, una giovane sopravvissuta che ha voluto raccontare il momento in cui ha incontrato B.A.C.A. durante quello che chiamano “il livello 1”, il primo contatto ufficiale con il gruppo. Le sue parole, semplici e sincere, raccontano molto più di mille analisi: “Nei giorni prima del mio livello 1… sapevo che al mattino ci sarebbero stati molti biker davanti a casa mia. E quando li ho visti arrivare, tutti quegli adulti, lì solo per me… ha significato il mondo intero.” In poche frasi, Rhythm descrive ciò che davvero accade nel cuore di questi interventi: il passaggio dalla paura paralizzante alla possibilità di fidarsi di nuovo, dal silenzio imposto alla voce ritrovata. È il momento in cui la notte cede il passo al giorno, in cui l’incubo lascia spazio alla quotidianità. Emile Durkheim, uno dei padri fondatori della sociologia, avrebbe forse interpretato questo fenomeno come un esempio vivo di coesione sociale che si ricostruisce attorno al trauma. In particolare, avrebbe potuto vedere in B.A.C.A. una risposta concreta a quella che definiva “anomia”, cioè la rottura dei legami che tengono insieme la società. Qui, al contrario, si crea una “anomia difensiva”: un’eccezione necessaria per ripristinare l’ordine simbolico e morale dopo una violazione così profonda. L’intervento dei biker rompe l’isolamento in cui i bambini abusati spesso vengono lasciati, ricostruendo un senso di sicurezza condivisa. È una forma di solidarietà concreta che non si ferma davanti ai tempi lenti della giustizia o alle rigidità burocratiche. Perché la paura, il senso di pericolo, non seguono l’agenda degli uffici pubblici. E la protezione non può attendere. Importante sottolineare che B.A.C.A. rifiuta ogni forma di violenza. La loro forza è tutta nella deterrenza, nell’esserci, nel comunicare con la presenza più che con le parole. Ma se la situazione lo richiedesse, se fossero davvero l’ultima barriera tra il bambino e un nuovo abuso, allora sarebbero pronti a essere quell’ostacolo. Non con la forza, ma con il coraggio e la determinazione. Ciò che colpisce è che molti dei membri di B.A.C.A. conoscono in prima persona il linguaggio del trauma. Alcuni hanno vissuto sulla propria pelle esperienze simili a quelle dei bambini che oggi proteggono. La loro militanza nasce anche da una memoria personale, trasformata in forza generativa. È empatia attiva, concreta. È la prova che si può trasformare il proprio dolore in uno strumento di cura. In un tempo che sembra anestetizzato dall’indifferenza, la storia di B.A.C.A. ricorda che la società può ancora essere cambiata, non solo con leggi e riforme, ma con scelte coraggiose. Scegliere di essere lì, di mettersi in gioco, di condividere il peso e di restituire forza a chi l’ha persa. Ogni bambino che torna a sorridere, ogni notte dormita senza incubi, ogni testimonianza che non si spezza sotto la paura, è una piccola, grande vittoria. E dietro a tutto questo, a volte, ci sono dei biker dal cuore d’acciaio, che non hanno scelto la via più facile, ma quella più giusta.

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