E se la depressione fossimo noi? La ferita invisibile di una società che non sa più abbracciare
di Cristina Di Silvio
C’è un dolore che non urla, che non lascia lividi, che non sporca le mani. Un dolore che si nasconde sotto giornate normali, sorrisi educati, frasi automatiche: “tutto bene, grazie”. Ma non è tutto bene. Quante volte abbiamo incontrato quel dolore senza vederlo? Quante volte lo abbiamo avuto addosso, senza sapere come chiamarlo? La depressione non è soltanto una diagnosi. È un grido che non riesce a uscire. È il rumore che fa un’anima quando cade, nel silenzio assoluto degli altri. È il sintomo collettivo di un’epoca che ha disimparato a stare accanto. Viviamo in una società che ci dice: sii felice, sii performante, sii grato. Ma non ci insegna a essere tristi. Non ci autorizza a fallire. Non ci lascia tempo per fermarci. Se rallenti, sei debole. Se ti fermi, sei fuori. E così, chi cade, spesso cade da solo. Eppure, siamo tantissimi. Milioni. Dietro le statistiche sull’aumento dei disturbi dell’umore ci sono vite vere, fragili e potentissime. Persone che, a un certo punto, non ce l’hanno più fatta a tenere insieme tutto: il lavoro, l’immagine, le aspettative, i sogni, le paure. Chi siamo diventati, se sentirsi sopraffatti è un difetto e non una richiesta d’aiuto? Il sociologo Alain Ehrenberg, con parole lucidissime, scrisse che il depresso è chi non riesce più a essere sé stesso. Non perché non voglia vivere. Ma perché vivere, oggi, vuol dire dimostrare di stare bene. Vuol dire farcela da soli. Non bastare a sé stessi, allora, diventa una colpa. Ma se la vera domanda non fosse: “perché sei depresso?”, ma “in quale mondo stai cercando di sopravvivere?” È un mondo dove si muore anche da giovani, anche quando si ha “tutto”. Come Caroline Flack, travolta dalla gogna mediatica prima che qualcuno potesse davvero chiederle: come stai, davvero? È un mondo dove un ragazzino può scrivere “non sono abbastanza” prima di gettarsi nel vuoto. È un mondo dove dire “non ce la faccio” è ancora uno scandalo. Ti sei mai chiesto quanto pesa l’invisibilità? Quanto pesa dover essere sempre a posto, anche quando ti senti rotto dentro? Zygmunt Bauman ci ha mostrato come i legami siano diventati liquidi, reversibili, effimeri. In un mondo così, cosa resta quando crollano le relazioni, il lavoro, le certezze? Chi ci raccoglie? Chi ci guarda? La depressione non è un virus isolato. È una forma estrema di disconnessione. Disconnessione da sé, dagli altri, dal senso delle cose. Non si tratta solo di serotonina. Si tratta di legami. Di tempo umano. Di riconoscimento. E se il depresso non fosse una persona da correggere, ma qualcuno da ascoltare? Se quel corpo che non vuole più alzarsi al mattino fosse la voce di un mondo che chiede una pausa? Se fosse, in fondo, un messaggero? Franco “Bifo” Berardi lo ha scritto chiaramente: il depresso è colui che si sottrae a una macchina che lo divora. È la stanchezza radicale di chi non vuole più partecipare al gioco. Ma non è solo rifiuto. È una domanda. Una ferita che chiede presenza, e non prestazione. Quante persone conosci che sorridono ma stanno lottando ogni giorno con il buio? E tu? Hai mai avuto paura di non farcela? Se la depressione è ovunque, allora non è più un “problema individuale”. È un grido sociale. E quel grido non ha bisogno solo di psicofarmaci o terapie (che sono strumenti preziosi e vitali). Ha bisogno di un cambiamento più profondo: relazionale, culturale, politico. Richard Sennett parlava di “corrosione del carattere”. Ma noi stiamo vivendo la corrosione del cuore. La scomparsa dei tempi lenti. La fine degli abbracci non produttivi. La desertificazione dell’empatia. E allora la domanda più vera diventa: quale tipo di società produce un dolore così diffuso e silenzioso? Chi stiamo lasciando indietro, mentre corriamo verso obiettivi che non ci somigliano più? La depressione ci riguarda. Non perché tutti ne soffrano, ma perché tutti ne siamo attraversati. È il riflesso opaco di un patto sociale che ha smesso di prendersi cura. È lo specchio di una civiltà che ha fatto della felicità un obbligo e della solitudine una condizione normale. Forse la vera rivoluzione è cominciare a restare. Accanto a chi crolla. Accanto a chi tace. Accanto a noi stessi. E ricordare che, a volte, la salvezza comincia quando qualcuno ha il coraggio di dire, semplicemente: “Ti vedo. Non sei solo.”