Il Silenzio degli Innocenti
di Anna Malinconico
A Natale siamo tutti più buoni. Chi ha qualche cosa da farsi perdonare, a Natale cerca di redimersi, di riconciliarsi con la vita ed il suo prossimo. Ma Natale è anche il momento in cui i lutti ripopolano i cuori; in cui i soli si sentono smarriti ed i vuoti sembrano non potersi proprio colmare. La ricerca della famiglia, anche per poche ore, fosse solo per il pranzo di Natale, è una tradizione ancora viva, soprattutto nella cultura del Sud. E così fu, nel lontano 1984, anche per la mia famiglia, ancora sgomenta e straziata da un dolore mai più risolto e che aveva cancellato il Natale dalle nostre anime: la morte prematura di mio padre. Mia madre decise di portare me e mio fratello a Milano, da alcuni parenti, per svagarci in compagnia. In poche ore fu tutto stabilito. Partenza 23 dicembre, rapido 904, carrozza di seconda classe. Ci aspettavano nove ore in treno, ritardi esclusi, per percorrere oltre mezza Italia.
Alla stazione di Napoli, capimmo che non sarebbe stato un viaggio comodissimo: c’era tantissima gente con valigie e pacchi regalo. Molti venivano dalla Calabria, dalle aree interne del Cilento. Persone semplici, lavoratori; pezzi di famiglie che intendevano, con quel viaggio, ricomporsi, anche solo per poche ore. Un intreccio di vite e di storie; di dialetti e di odori. Il vagone che ci ospitava era pieno, noi tre eravamo seduti sulla destra. Ci fermammo a Roma, alla stazione Termini, dove salì altra gente, e poi a Firenze. Quella di Firenze fu una sosta un po’ più lunga. Ci fu chi comprò l’acqua, chi scese dai vagoni per fare quattro passi, chi per telefonare da una cabina a gettoni. Non esistevano i cellulari, e contattare gli amici, i parenti, era possibile solo dalle cabine telefoniche, quando funzionavano. Poi ripartimmo per Bologna. Il rumore del treno era assordante; il chiacchierio dei passeggeri in sottofondo continuo; qualche bambino si lamentava ed il buio della sera dell’antivigilia di Natale scese in tutti i vagoni. Imboccammo, verso le 19, la galleria di San Benedetto val di Sambro, il rumore assordante di ferraglia in un attimo si amplificò…, ma poi…, poi accadde qualche cosa di inspiegabile; di assolutamente incomprensibile; accadde qualche cosa a cui non riuscimmo per ore a dare un nome… Ci fu un boato. Un “botto” straordinario. Il fragore fu intenso, forte, devastante, tanto da ferire i timpani. Contemporaneamente il treno piombò in un buio profondo, assoluto, mai prima percepito con tale totalità. Non il buio della galleria, pur rischiarato da qualche lampadina. Non il buio della notte, illuminato da qualche stella, o affollato di ombre. Nemmeno il buio dell’anima, popolato da ricordi o affanni: ma il buio della morte. Un buio totale, avvolgente, soffocante. E poi il silenzio. Il boato, nonostante la sua intensità, cessò all’improvviso, senza lasciare traccia di sé, ed il buio piombò nel silenzio. Il silenzio della fine. Il mondo si fermò in quell’attimo, e noi e tutti gli altri compagni di viaggio arrivammo ad un punto di non ritorno. La mente rimase a lungo prigioniera di quel fragore e del buio in cui si era prodotto. Nemmeno il respiro trovava lo spazio per uscire. Dopo qualche attimo un odore intenso, un misto fra polvere da sparo e gas, colpì le nostre narici ed ebbe quasi l’effetto di uno schiaffo sul volto, che mi fece capire che, forse, c’ero ancora; allungai la mano e sfiorai il ventre di mia madre; chiamai mio fratello: anche lui era là. In quel luogo di morte nessuno si lamentava.
Noi c’eravamo. Altri no. Non più. Pian piano, allungando i piedi cautamente, mi resi conto che del pavimento del vagone era rimasta solo una lingua di ferro che ci consentiva di rimanere in piedi. Il cervello riprese a funzionare, e con lui comparve l’unica domanda possibile: Cosa è successo? Domanda che non trovò risposta per qualche ora… Eh si, perché nessuno riuscì a mettersi in contatto con noi, e, sebbene fosse ancora vivo il ricordo degli anni di piombo, la certezza che si trattasse di una bomba, di un attentato, l’avemmo molto più in là. Lì per lì pensammo ad un deragliamento. Riprendemmo il controllo di noi stessi e cercammo di capire cosa fare. E’ davvero difficile raccontare quelle ore interminabili, soprattutto è complicato far comprendere come, tanta gente diversa, ignara dell’accaduto, in silenzio, al freddo, sia riuscita a trascinarsi fuori da quell’inferno. Proprio così. Se oggi dovessi spiegare a mio figlio come immagino l’inferno, glielo descriverei con i ricordi di quel lontano 23 dicembre 1984. Mano nella mano iniziammo a scendere dalla ferraglia dove eravamo riusciti a rimanere; al buio, senza accendere né luci, né accendini, per paura di saltare in aria, ci incamminammo verso la testa del treno. Faceva freddo, anche la linea elettrica era stata danneggiata. Ci mantenevamo il più possibile sotto il muro, perché eravamo convinti che nessuno “fuori” sapeva niente dell’incidente, e che, dunque, qualche altro treno, di transito, di lì a poco avrebbe potuto travolgerci…facemmo una catena umana. Sembravamo dei topi impauriti e silenziosi, che si trascinavano nelle viscere della terra. L’aria era irrespirabile, perché ai gas già presenti nella galleria, si erano uniti quelli dell’esplosione.
Furono proprio questi gas -lo scoprimmo molto più tardi – ad impedire ai soccorsi di entrare nella galleria per soccorrerci. Stretti gli uni agli altri, camminammo per un tempo indefinito ed interminabile; i meno provati, i più fortunati, ci prodigammo per aiutare chi ne aveva più bisogno. I piedi si posavano ovunque: ferraglia; abiti; pezzi di valigie. Resti umani. E fu così che capii di essere nata per la seconda volta. Intorno, qualche pianto sommesso; qualche lamento sordo; ma nessuno urlava; nessuno sbraitava. La paura, il terrore, avevano lasciato spazio ad un dolore collettivo. La dignità, la forza, la voglia di farcela, la generosità della gente del sud, di gente abituata a soffrire ed a lottare da sempre, apparve in tutta la sua potenza. Tutti ci facemmo carico di qualcun altro, camminando al buio, verso chissà dove, senza sapere se la morte che ci aveva appena evitato, non sarebbe venuta da lì a poco a riprenderci. Ed io, con questo pensiero, riuscii ad essere quasi contenta, vedendo, come vidi, il volto di mio padre oltre il tunnel. Arrivammo così più avanti, vicino alle carrozze di prima classe; là, c’era più gente, e il capotreno aveva una parola per tutti. Pur ferito, trasmetteva energia positiva. Con lui, “raccogliemmo” i feriti più gravi che riuscimmo a scorgere, e li aiutammo a salire sulla piccola carrozza motrice Diesel, che fu agganciata a vista, cioè fu guidata per la manovra dai passeggeri stessi. Veramente ci fu un gran da fare da parte di tutti. Ed ognuno fu costretto a superare le proprie paure ed i propri limiti, per sopravvivere e per essere utile a chi ne aveva bisogno. Quanto sangue. Quanto dolore. E quanto strazio nel dover lasciare a terra chi non aveva più respiro. Mai così vicina fu la morte. Certo, la perdita di mio padre me l’aveva già fatta incontrare. Ma qua era diverso. Sotto la galleria la morte camminava con me, con tutti noi. Ci rimase accanto per tutte quelle ore interminabili. Si era addirittura beffata di noi. Non ero impaurita per averla avuta accanto per tanto tempo. Ero arrabbiata, furibonda, ero offesa. Aveva cercato di toglierci la dignità. Ma non c’era riuscita nemmeno questa volta. Non c’era riuscito con papà, che aveva mantenuto la sua fierezza intatta, fino alla fine, e non c’era riuscita sotto quella maledetta galleria. Gli aiuti, sotto il tunnel della morte, non arrivarono mai. Davvero geniali erano stati gli assassini ideatori di tanto strazio.
L’ordigno mortale (che fu poi accertato negli anni successivi, essere dello stesso tipo utilizzato nel 1992 per massacrare il giudice Borsellino e la sua scorta) era stato posto, durante la sosta alla stazione di S. Maria Novella di Firenze, al centro del treno, su una griglia portabagagli del corridoio della carrozza di II classe, n.9. In questo modo il treno fu smembrato, spezzato in due, al centro del tunnel più lungo d’Italia. E con lui furono brutalmente interrotte le vite di 17 innocenti, tra cui due bambini di 4 e 9 anni. Alla stazione di Bologna erano in tanti ad aspettare l’arrivo del treno della morte. Forze dell’ordine, Croce Rossa, autorità locali e nazionali, giornalisti. Ma anche tanta gente comune, amici e parenti dei viaggiatori. I feriti furono soccorsi e mandati negli ospedali più vicini; i cadaveri furono portati in una sala della stazione, e fu là che riconobbi mia cugina aggirarsi incredula e sgomenta, cercando i nostri volti. Erano venuti da Milano a Bologna, in un’unica auto, in 4: sapevano il numero del vagone che ci ospitava, e dopo le prime notizie raccapriccianti rilasciate da radio e tv, non pensavano di poter tornare a Milano in nostra compagnia, e fu allora che capii che, nonostante tutto, per noi si era appena compiuto il miracolo di Natale. Il giorno dopo, e per molti altri ancora, i giornali parlavano dell’attentato, ognuno a suo modo; anche noi fummo raggiunti per rilasciare interviste e dare testimonianza dell’accaduto. Il mio cuore di superstite, di ragazza del sud, fu violentato ed offeso anche dal modo di narrare l’accaduto da parte di alcuni giornalisti. “Folla di diseredati che dal Sud raggiunge il nord”, addirittura fu apostrofato da qualcuno, quel flusso di persone che semplicemente aveva preso il rapido 904 per trascorrere un Natale in famiglia. Alcune descrizioni dell’accaduto furono, a dir poco, deliranti. Si parlò di urla, chiasso, insomma stereotipi del meridionale doc. Io c’ero, e non fu così. A distanza di anni ricordo ancora il silenzio di quegli innocenti, che nel mio cuore fa più rumore di tante, troppe parole inutili. Quella del rapido 904 è diventata nell’immaginario collettivo la strage di Natale, per la quale le vittime, i parenti e tutta l’Italia hanno dovuto aspettare un bel po’ per capirne gli scenari che l’hanno prodotta. Vennero a galla diverse linee di collegamento fra mafia, camorra napoletana e gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino la banda della Magliana. Il 9 gennaio del 1986, il Pubblico Ministero Pierluigi Vigna, imputò formalmente la strage a Pippo Calò e Cercola con “….lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata….”.
Molti altri fatti accaddero negli anni successivi, e suggellarono questo intreccio fra mafia, camorra e terrorismo eversivo di destra. Nel 1994, si concluse il giudizio anche per il parlamentare dell’MSI Massimo Abbatangelo, la cui posizione era stata stralciata dal processo principale. Abbatangelo fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a 6 anni di reclusione per aver consegnato dell’esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera dell’84. Fu solo nel 2011 che la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del mafioso Totò Riina, considerato il mandante della strage. La strage di Natale rappresentò la prima risposta ai mandati di cattura relativi al maxiprocesso emessi nel settembre del 1984 da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: il messaggio era diretto ai referenti politici e mirava a condizionare l’esito del dibattimento. Per anni ho abbinato nel mio cuore la data del 23 dicembre al lutto, sospendendola da tutti i calendari…Ma proprio un 23 dicembre di qualche anno fa, è accaduta la cosa più bella e di valore della mia vita di donna: ho incontrato per la prima volta gli occhi di mio figlio. Non poteva essere un caso; non volevo fosse un caso. Il 23 dicembre è, da allora, il giorno della rinascita; della vittoria della vita sulla morte; del futuro sul passato. Con un sentimento di apertura e riconciliazione, dedico questo mio ricordo, questa mia testimonianza a tutti quegli innocenti augurandomi che il loro cuore si sia riaperto alla vita ed alla speranza. Ed a tutti gli altri, per non dimenticare.