Gaza, il Controllo Totale e la Fine dell’Umano: Un Conflitto che Riscrive le Regole
Di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali
Nel sud della Striscia di Gaza, la città di Khan Younis è diventata l’epicentro di una nuova fase del conflitto israelo-palestinese. Ma ciò che sta accadendo non riguarda solo una città, o una guerra. Riguarda tutti noi. Perché Gaza oggi è lo specchio rotto di un mondo che sta perdendo la capacità di vedere nell’altro un essere umano.
L’annuncio da parte di Israele dell’intenzione di ottenere il “controllo totale” della Striscia ha segnato un punto di svolta: non solo militare, ma anche simbolico. Dietro a quell’espressione, apparentemente tecnica, si cela una visione del conflitto in cui la sicurezza prevale sulla giustizia, e l’ordine viene separato dalla compassione.
Khan Younis evacuata: rifugi che non proteggono più. La popolazione è stata costretta a evacuare in massa da Khan Younis, diretta verso Al-Mawasi, un’area già colpita in passato, oggi etichettata come “zona umanitaria”. Ma a Gaza, le parole non significano più ciò che dovrebbero. Le “zone sicure” si trasformano in bersagli, i corridoi umanitari in trappole, i rifugi in nuove tappe di un esodo che sembra non finire mai. Secondo osservatori internazionali, molte famiglie sono state sfollate più di cinque volte in meno di due anni. Vivono tra le rovine, senza acqua, senza elettricità, con accesso limitato al cibo. In termini sociologici, si parla di “migrazione interna forzata ciclica”: un fenomeno che frammenta l’identità individuale e collettiva, erodendo non solo le case, ma anche i legami sociali.
Un conflitto armato, ma anche narrativo. Dietro la strategia militare si muove una precisa logica comunicativa. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che la ripresa minima degli aiuti umanitari avviene “per motivi politici e diplomatici, non umanitari”. In altre parole: anche la fame è gestita secondo criteri di convenienza internazionale. La guerra diventa così anche una lotta per la legittimità morale. In un mondo iperconnesso, il consenso globale è una risorsa strategica quanto i missili. La sociologia dei media parla di “battaglia semantica”: non si combatte solo sui campi, ma nei telegiornali, sui social, nelle agenzie stampa.
Le crepe morali dell’Occidente. Il numero delle vittime nella Striscia ha superato le 53.000, con una percentuale altissima di donne e bambini. Eppure, la risposta dell’Occidente resta titubante. Gli Stati Uniti continuano a sostenere Israele, ma con tensioni interne crescenti. L’Europa appare paralizzata, divisa tra dichiarazioni di principio e incapacità politica. Il Sud Globale osserva, spesso con disillusione.
La credibilità dell’ordine internazionale è in discussione. Gaza è diventata il nuovo banco di prova di un sistema che si dice fondato sul diritto, ma che troppo spesso si piega alla ragion di Stato. Come sostengono diversi studiosi, tra cui Saskia Sassen, il potere globale tende a “sottrarre diritti” proprio nei luoghi dove dovrebbe proteggerli.
Gaza non è sola: è parte di qualcosa di più grande. Ciò che accade a Gaza non è un evento isolato. È collegato alle tensioni nel Mar Rosso, alla crisi in Libano, alle manovre di Iran, Russia, Qatar, Egitto. È un nodo nel sistema geopolitico globale. E riguarda anche noi, europei, americani, cittadini di un mondo che si crede stabile mentre scivola verso l’instabilità. Il Canale di Suez, per esempio, ha visto un crollo dei traffici marittimi a causa degli attacchi Houthi. L’economia globale ne risente. La politica internazionale traballa. In questo scenario, Gaza diventa il simbolo di un equilibrio che non regge più: né sul piano militare, né su quello morale.
Quando il controllo diventa una trappola. L’idea stessa di “controllo totale” pone interrogativi profondi. È possibile dominare un territorio abitato da due milioni di persone senza scivolare in una spirale infinita di occupazione, guerriglia, isolamento? La storia recente – da Fallujah ad Aleppo – dice di no. La vittoria militare non garantisce né pace, né sicurezza. Come ammoniva il sociologo Michel Foucault, ogni forma di potere totale produce inevitabilmente nuove resistenze. La forza può spegnere il fuoco, ma raramente spegne l’idea. E ogni bambino cresciuto tra le macerie è un futuro adulto che avrà visto il mondo voltarsi dall’altra parte.
Un bivio per il futuro dell’umanità. Il dramma di Gaza ci mette di fronte a una scelta collettiva: possiamo davvero accettare che la distruzione sia un prezzo legittimo per la sicurezza? O vogliamo costruire un mondo dove la sicurezza significhi anche rispetto, diritto, empatia? In gioco non c’è solo la pace in Medio Oriente. C’è l’idea stessa di civiltà. E la risposta – o il silenzio – della comunità internazionale determinerà se il “controllo totale” sarà l’inizio di un nuovo ordine… o il crollo definitivo di quello che avevamo promesso di difendere.