La Carta che ci scrive. L’ONU, 80 anni dopo: universalismo come trauma irrisolto? 

La Carta che ci scrive. L’ONU, 80 anni dopo: universalismo come trauma irrisolto? 

di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali

Nel 1945, si firmò qualcosa che andava oltre il diritto: una preghiera laica, un dispositivo di memoria futura. La Carta delle Nazioni Unite venne redatta non solo per regolare i rapporti tra Stati, ma per dire all’umanità intera: possiamo ancora immaginarci come collettivo. Eppure, oggi, ottant’anni dopo, quel documento appare come una forma di potere gentile divenuta afasica, un contratto globale che tutti continuano a firmare — ma che nessuno più legge davvero. Max Weber scriveva che la politica è “la lenta perforazione di tavole dure con passione e senso di proporzione”. Ma quale proporzione è rimasta, quando la macchina multilaterale più vasta del mondo è costretta ad assistere, impotente, alla distruzione sistematica di un popolo sotto gli occhi delle telecamere e dei droni? In questi mesi, Gaza non è soltanto un luogo: è un punto cieco del diritto internazionale. Una ferita aperta nel corpo stesso dell’universalismo. Non bastano le risoluzioni: non arrivano. Quando arrivano, non valgono. O vengono bloccate, smentite, svuotate. In quel lembo di terra, la Carta dell’ONU è già carta straccia. Le sue parole — “dignità umana”, “popoli”, “pace” — si spezzano una dopo l’altra come vetri sotto i bombardamenti. Chi osserva Gaza da lontano, con gli strumenti dell’analisi sociale, è chiamato a uno sforzo tragico: riconoscere che la messa in scena dell’impotenza è diventata parte integrante dell’ordine globale. Gaza non è solo un crimine, è una rappresentazione. Un atto che espone l’irrilevanza della parola internazionale e il collasso simbolico delle istituzioni multilaterali. Il sociologo Zygmunt Bauman, parlando della modernità, scriveva che “la burocrazia permette agli uomini di fare il male senza essere cattivi”. Il sistema multilaterale, oggi, sembra aver internalizzato questa logica: produce documenti, si appella al dialogo, mentre le macerie si accumulano. La macchina lavora, ma il mondo brucia. Eppure, la Carta resiste, come quei testi sacri letti dai superstiti nei rifugi. Perché? Perché continua a funzionare in modo invisibile, nonostante la disillusione. Perché mentre i governi mentono, le agenzie lavorano: l’UNICEF che porta acqua in Sudan, l’OMS che vaccina i bambini in Siria, il Programma Alimentare Mondiale che tenta di sostenere gli affamati in Afghanistan. Eppure, anche questo — se non riconosciuto, se non discusso — diventa silenzio strutturale. La vera domanda non è se la Carta dell’ONU sia efficace. È: cosa dice di noi il fatto che, pur inefficace, ne sentiamo ancora il bisogno? Perché persiste, come archetipo istituzionale, il sogno di un patto universale tra Stati sovrani? Forse perché, come suggerisce Pierre Bourdieu, “la realtà più efficace è quella che viene riconosciuta come legittima, anche se non lo è”. Il diritto internazionale, così come l’ONU, opera in un paradosso: esiste come se funzionasse, e funziona solo finché crediamo che esista. Ma chi ha ancora fede in questo dispositivo? Gli studenti di sociologia ne parlano con ironia, gli Stati con retorica, le popolazioni con rabbia o indifferenza. Intanto, le diseguaglianze si solidificano, e il veto — la grande architettura del privilegio — si presenta come simbolo non della sicurezza globale, ma della sua cattura oligarchica. L’universalismo, per funzionare, richiede universalità di condizioni materiali, non solo formali. Ma oggi il diritto all’uguaglianza tra Stati non trova riscontro in un’uguaglianza tra le vite. Gaza vale meno di Kiev. Port-au-Prince vale meno di Tel Aviv. Alcune morti sono statistiche, altre eventi. Alcuni popoli sono visibili solo quando sconvenienti. Eppure, l’idea che l’umanità possa autogovernarsi resta una delle poche ipotesi collettive degne di essere coltivate. Non si tratta di nostalgia, ma di necessità. Perché ogni volta che la Carta viene ignorata, violata o manipolata, non è solo un fallimento politico. È la sconfitta di un’idea: che esista qualcosa che ci lega tutti, anche solo idealmente. L’ONU è in crisi? Sì. Ma forse la domanda più profonda è: è ancora l’ONU a essere in crisi, o è l’idea stessa di convivenza planetaria che sta cedendo? La Carta è fragile, ma noi lo siamo di più. La sua sopravvivenza, oggi, non dipende dal diritto internazionale, ma dalla nostra capacità di continuare a leggerla non come regola, ma come sfida. Come scriveva Norbert Elias: “La civiltà non è un dato acquisito. È una conquista fragile, sempre reversibile.” E Gaza — oggi — ce lo urla in faccia.

adminlesociologie

adminlesociologie

Lascia un commento

Questo sito utilizza i cookie e richiede i tuoi dati personali per migliorare la tua esperienza di navigazione.