Quando per il contesto sociale la vittima se l’è cercata: il Victim blaming.
Di Alessandra Pinto, avvocato, componente della Commissione Minori dell’Ordine degli avvocati di Napoli
Nei casi di violenza sessuale tra i vari elementi esaminati ai fini della configurabilità del reato, non è data particolare solo al consenso o meglio al “presunto” consenso della vittima ma anche ai suoi atteggiamenti, con i quali può aver comunicato, in modo esplicito o implicito, il desiderio di consumare il rapporto intimo.
Eppure, mentre la giurisprudenza pone l’accento sulla verifica in ordine alla sussistenza o meno del consenso per tutta la durata del rapporto sessuale, gli atteggiamenti della vittima non rientrano tra le circostanze contemplate dalla norma.
Per quale ragione nella narrazione delle vicende sia nelle aule di un tribunale che da parte dei mezzi di comunicazione assume rilievo stabilire la tipologia di indumenti indossati dalla vittima, il numero di relazione intime avute, le fotografie pubblicate sui social o anche l’andamento scolastico?
È bene chiarire sin dal principio che i suindicati aspetti non sono elementi di diritto; nonostante ciò, essi incidono sulla credibilità della vittima per il sistema sociale.
Assistiamo a tale fenomeno poiché non tutti gli operatori del diritto, gli assistenti sociali o coloro che “raccontano” di casi di violenza, soprattutto se coinvolte persone famose, conoscono il ciclo della violenza facendo assumere all’atteggiamento della vittima una importanza superiore alla sussistenza o meno del consenso.
Si suole parlare in tali casi di victim-blaming, ossia un atteggiamento della società che tende a colpevolizzare le vittime di violenza per ciò che hanno subito con una vera e propria inversione di ruolo: l’attenzione si sposta dal comportamento dell’aggressore a quello della vittima concentrandosi sulla sua credibilità.
Fu lo psicologo William Ryan a parlare del cosiddetto victim-blaming nella metà degli anni Settanta per spiegare un atteggiamento sociale che tendeva ad incolpare le fasce più povere della popolazione americana della condizione di povertà in cui esse vivevano.
Nel libro che fu pubblicato, Blaming the Victim, lo psicologo spiegava come incolpare la vittima per la situazione in cui versava era il modo più semplice per affrontare situazioni complicate poiché consentiva di ignorare un problema attribuendo alla vittima stessa il compito di trovare gli strumenti per affrontarlo e risolverlo, oppure conviverci.
Tale concetto è di sovente applicato alle ipotesi di violenza sulla donna, che con il suo abbigliamento, i suoi atteggiamenti provocatori oppure un silenzio durato per anni è stata la causa determinante di quanto subito; nella dinamica di causa-effetto ha ingenerato “colpevolmente” la convinzione nell’ aggressore di essere consenziente al rapporto sessuale.
Il “victim-blaming” comporta conseguenze devastanti non solo in termini di vittimizzazione secondaria ma soprattutto crea forti resistenze alla denuncia per timore della vittima di non essere creduta e dell’impatto sociale sulla sua vita.
Per superare i pregiudizi sociali è fondamentale essere “formati” ed informati, creare una rete di sostegno alle vittime di violenza; in caso contrario ogni intervento legislativo per combattere la violenza sulle donne sarà vano e le nuove generazioni assumeranno come normali comportamenti che non lo sono.
Ecco la ragione per cui oltre ad operatori specializzati nel riconoscere i segnali della violenza o nel raccogliere una denuncia, è fondamentale una comunicazione adeguata in famiglia e nelle scuole.
In Italia da qualche anno si svolge una mostra organizzata da Amnesty International, dal titolo “Com’eri vestita?”, per combattere i luoghi comuni sull’idea che la vittima di violenza “se l’è cercata” https://www.amnesty.it/comeri-vestita-la-mostra-che-racconta-le-storie-di-violenza/.
Sono stati esposti gli abiti indossati dalle vittime (indumenti sportivi, jeans, magliette …) accompagnati dalla testimonianza di chi ha subito violenza quando li indossava.
La mostra, già stata allestita negli Stati Uniti ed in altri luoghi, se adattata alla tipologia di pubblico (a seconda dell’età) può essere considerata una valida iniziativa per sensibilizzare il contesto sociale e superare gli stereotipi educando i giovani.