“Quando l’Umano Vince: La Sociologia della Speranza nella Storia di Oscar” 

“Quando l’Umano Vince: La Sociologia della Speranza nella Storia di Oscar” 

di Cristina Di Silvio

In un’epoca in cui il discorso pubblico è spesso inquinato da narrazioni di paura, disuguaglianza e individualismo esasperato, la storia di Oscar Saxelby-Lee rappresenta un luminoso controcanto: un frammento di realtà che dimostra come, anche nei momenti più drammatici, l’essere umano sia ancora capace di atti collettivi di straordinaria empatia. Oscar aveva solo cinque anni quando gli è stata diagnosticata una forma rarissima e aggressiva di leucemia. La prognosi era spietata: serviva un donatore di midollo osseo e serviva subito. Ma il cuore di questa vicenda non sta nella malattia, bensì nella risposta. In tre giorni, quasi cinquemila persone si sono messe in fila – giovani, anziani, uomini e donne, molti dei quali perfetti sconosciuti – accettando ore d’attesa sotto la pioggia solo per fare un tampone salivare. Un gesto semplice, ma radicalmente umano. Un’azione che si fa testimonianza concreta di una delle più potenti verità sociologiche: siamo esseri relazionali. Empatia come forza sociale. Dal punto di vista sociologico, il gesto collettivo che ha salvato Oscar è una manifestazione potente di solidarietà meccanica, per usare le parole di Émile Durkheim. Non perché fondata su ruoli simili o su una struttura sociale tradizionale, ma perché radicata in un sentire comune, in un bisogno quasi istintivo di “esserci” per l’altro. È il riconoscimento, nel volto altrui, di una fragilità che potrebbe essere la nostra. Quei cinquemila volontari non erano solo individui: erano un corpo sociale, un noi che ha scelto di non restare spettatore. Hanno trasformato un evento privato in un rito collettivo di cura e partecipazione. Hanno rotto con l’apatia sociale, con la tentazione della distanza emotiva e fisica che spesso caratterizza le nostre comunità urbane. La speranza come bene comune. La sociologia ci insegna che le società non si reggono solo su leggi e istituzioni, ma su legami affettivi, sulla fiducia e su narrazioni condivise. La storia di Oscar ha riattivato questi legami. Ha rimesso al centro la speranza come bene comune, come collante invisibile che unisce anche chi non si conosce, ma riconosce nell’altro qualcosa di sé. L’enorme risposta solidale è stata anche una forma di resistenza culturale: contro l’indifferenza, contro l’atomizzazione sociale, contro l’idea che il bene dell’altro sia irrilevante per il nostro. È, in definitiva, una potente lezione di sociologia vissuta: la cura non è un gesto privato, ma un atto sociale.

Un lieto fine che ci riguarda tuttiDopo una lunga lotta, Oscar ha trovato il donatore compatibile. Ha affrontato terapie in Inghilterra e poi a Singapore, dove ha ricevuto una cura innovativa basata sulle cellule CAR-T. Oggi sta bene. Ha un fratellino. Sorride. Vive. Ma questa non è solo la sua vittoria. È la vittoria di una comunità che ha scelto di farsi società. In un tempo in cui spesso ci chiediamo se esista ancora una dimensione collettiva del vivere, la risposta è sì. È nelle storie come quella di Oscar. È nelle file sotto la pioggia. È nei gesti anonimi che diventano atti pubblici di amore.

La sociologia del bene possibile. La sociologia non studia solo i conflitti, ma anche i ponti. La storia di Oscar Saxelby-Lee è uno di quei ponti: tra individui e comunità, tra disperazione e speranza, tra il “me” e il “noi”. È un invito potente, soprattutto per chi studia le scienze sociali, a non dimenticare che le strutture si trasformano anche attraverso i gesti umani. E che, a volte, per salvare una vita, basta mettersi in fila. Quando scegliamo di esserci, vinciamo tutti. E in questo, Oscar ci ha insegnato molto più di quanto possiamo immaginare.

adminlesociologie

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