“Martiri della verità: da Giovanni Falcone al giornalismo d’inchiesta, quando la giustizia diventa missione”
di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali
Una riflessione sociologica e teologica sul parallelismo tra il sacrificio di Giovanni Falcone e il coraggio dei giornalisti che sfidano il potere nel nome della verità.
Il sacrificio di Falcone e il paradigma del giornalismo martiriale. Nel contesto odierno, in cui l’informazione è spesso distorta o manipolata, il giornalismo d’inchiesta si colloca in una posizione critica: quella della resistenza. Un esempio drammatico e contemporaneo di questo fenomeno è rappresentato dal caso del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato nel 2018 nel consolato dell’Arabia Saudita an Istanbul. Khashoggi, editorialista del Washington Post, criticava apertamente il regime saudita, denunciando la repressione dei diritti umani e la disinformazione sistemica. Il suo omicidio ha generato uno shock globale, ma anche un paradigma: quello del “giornalista martire”, laico portatore di una verità scomoda.
Il caso Khashoggi e la dimensione del martirio civile. Khashoggi, come Falcone, aveva coscienza del rischio. Scriveva sapendo di essere osservato. In questo senso, il suo sacrificio assume una valenza teologico-politica. Come sostiene il teologo Dietrich Bonhoeffer — lui stesso martire del regime nazista — “la verità senza compromessi è una forma di testimonianza profetica”. Il giornalista, come il profeta biblico, parla nel deserto, denunciando la corruzione e l’idolatria del potere. Questa prospettiva ci consente di introdurre una lettura teologica del giornalismo d’inchiesta come forma di testimonianza. Secondo la teologia del martirio (lat. martyr = testimone), il sacrificio di sé non è solo passione ma vocatio, chiamata a rappresentare una verità superiore, anche contro il consenso.
Il giornalismo come kenosi: svuotarsi per la verità. Nella teologia cristiana, la kenosi è il processo di svuotamento volontario di sé, compiuto da Cristo, che “svuotò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7). In questa luce, il giornalista che rinuncia al prestigio, al potere o alla sicurezza personale per perseguire l’inchiesta diventa una figura kenotica. Non cerca il martirio, ma accetta il rischio come componente inscindibile della verità. È una forma laica e contemporanea di “cristologia civile”. Il parallelo con Falcone, che accettò di vivere in un bunker pur di portare avanti il maxi-processo, è evidente. Entrambi hanno vissuto un’esistenza “ridotta” nel nome di un bene superiore.
Verità come bene escatologico. In una società post-secolare, dove il sacro non è scomparso ma si è trasformato, la figura del giornalista martire acquisisce una funzione simbolica fondamentale: quella di rappresentare un escaton, una giustizia “già e non ancora” realizzata. Se Falcone ha incarnato la speranza di uno Stato giusto, Khashoggi e altri come lui testimoniano la possibilità di una verità che sopravvive alla menzogna, anche quando il corpo del testimone viene annientato.
In questo senso, il loro sacrificio ci interroga non solo come cittadini, ma come esseri umani in cerca di senso. La loro eredità è un Vangelo laico: parole scomode, scritte col sangue, che non smettono di chiedere giustizia.