di Sergio Mantile
«La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente. 'Paura' è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c'è da fare.»
Zygmunt Bauman
Dopo lo tsunami mondiale del coronavirus, come ormai pensano in moltissimi, niente più sarà come prima. A partire dalla cosiddetta globalizzazione, che ha galoppato per oltre un trentennio attraverso tutti i continenti della terra, godendo di un periodo straordinariamente lungo di anomia – o di deregulation – nonostante i ripetuti e crescenti moniti di valenti economisti, ambientalisti, sociologi, climatologi e medici, volti a mitigarne gli eccessi attuali e quelli potenziali, con riguardo alla stessa sopravvivenza biologica del pianeta.
Naturalmente, non è il sistema produttivo mondiale che si fermerà, né credo che nessuno voglia ragionevolmente augurarselo. Ma sicuramente una serie di modalità economiche e redistributive della ricchezza, di processi dell’istruzione e della conoscenza collettive, di tecniche amministrative e organizzative della sanità e dell’ambiente, del lavoro e della soddisfazione dei bisogni vitali dovranno cambiare.
Più o meno gradualmente, più o meno traumaticamente.
Il coronavirus ha alzato di colpo un muro davanti allo sfrenato galoppo della globalizzazione. A questo punto, può essere interessante cominciare a riflettere sulle possibili trasformazioni, partendo da uno degli elementi cardine della politica e dell’economia planetaria degli ultimi trenta-quaranta anni, ossia dalla genesi della produzione della paura sociale che, per fare un solo ma emblematico esempio, spinge gli americani, di fronte alla minaccia del covid 19, ad acquistare più armi che generi alimentari. Una paura incontrollabile, che sprofonda nell’irrazionalità e si nutre di ignoranza e di mitologie. Sembra una paura di genere medioevale, certamente non una paura legata ad un grado elevato di sviluppo della civiltà, che goda di istituzioni formative numerose, efficienti e diffuse, oltre che di una varietà di mezzi informativi che divulgano capillarmente e costantemente informazioni scientifiche, storiche, culturali e tecniche.
Suscitare la paura nell’avversario, per ridurne le capacità di offesa, è una strategia largamente diffusa negli animali, un meccanismo basico che adotta una grande varietà di modificazioni bio-chimiche, somatiche e comportamentali per attivarsi. Anche nell’uomo, come si sa, la pedagogia dell’orrore è uno strumento di dominio elementare, ben noto fin dalla notte dei tempi, per indurre popoli e classi sociali alla sottomissione, attraverso moniti crudeli come le rappresaglie di massa, gli olocausti, le crocifissioni, le decapitazioni e le torture. In epoca moderna, questo meccanismo è stato ben descritto da Erich Fromm, in Fuga dalla libertà, dove illustra con efficacia come alcuni gruppi violenti (ovviamente sovvenzionati da alti interessi economici) fomentino con azioni criminali una diffusa paura sociale, per trasformarla poi in un crescente bisogno di ordine, anche a costo della rinuncia della libertà. (Diversamente, uno Stato democratico, per gestire e mantenere quello che Weber chiama il “monopolio della violenza fisica” deve poter utilizzare, attraverso il diritto penale e anche attraverso le sanzioni amministrative, il potere di punizione, come deterrente dall’illegalità, ma in questo caso si tratta di una promessa di punizione che viene collettivamente negoziata e concordata attraverso il processo legislativo).
La globalizzazione liberalizza gli scontri confinari
All’alba della globalizzazione, quando il computer rese possibile la trasmissione istantanea dei capitali da un continente all’altro, e la divisione del lavoro su scala planetaria, gli strateghi dell’economia (in particolare i Chicago’s boys) decretarono che da un lato non ci dovessero essere più servizi gratuiti pubblici, e che tutto andava pagato, dall’accesso a una spiaggia alle cure mediche, dal posto auto all’acqua da bere. Dall’altro che bisognava fluidificare i capitali “immobilizzati”, come la casa di proprietà (sulla quale, per esempio, era auspicabile accendere ipoteche per avere capitali da investire) o i beni comuni, che andavano massicciamente privatizzati. Inoltre, occorreva puntare sui grandi capitalisti ed i grandi arricchimenti individuali, favorendoli con regimi fiscali straordinariamente amichevoli, perché poi dai ricchi “a cascata, si sarebbe generato l’arricchimento della restante società”. Fu da subito evidente che tanto affrancamento di capitali, liberi di sciamare dai boschi dell’Argentina, da trasformare in pascoli per le mucche da carne di McDonald’s, fino alla mano d’opera a basso costo dell’India o dei Paesi dell’Est europeo, non poteva sopportare in alcun modo vincoli etici, ecologici, di diritto del lavoro o nazionale o di qualsiasi altro genere.
Come in altri momenti storici, quando l’economia cominciava un potente decollo, il reticolo di normative presenti, nazionali ed internazionali, diventava di colpo obsoleto e inadeguato, come una insopportabile rete da dover squarciare, per favorire il laisser faire.
Il sociologo catalano Manuel Castells, nella sua classica trilogia La nascita della società in rete, che risale ormai a venti anni fa, descrive mirabilmente sia il complesso processo economico-politico attivato dalla rivoluzione informatica, che ha letteralmente riscritto il mondo, trasformando i suoi luoghi in spazi di flussi, e sia le grandi tensioni che si sarebbero attivate, o che lo erano già allora, su problematiche confinarie, come quelle di genere (uomo/donna, etero/gay) religiose (integralisti/non integralisti, mussulmani/ebrei, ecc.) di etnia (come nella ex Jugoslavia o tra Russi e Ceceni), ecc. insieme con l’internazionalizzazione delle mafie, europee, asiatiche ed africane, originariamente locali. Accade, quando si aprono varchi per lo scorrimento di merci, di capitali, di tecnologie e quindi anche di armi, di droghe, ecc. tra popoli e gruppi sociali che avevano vissuto (talvolta per secoli, e nonostante l’esistenza storica di scambi internazionali pacifici e/o bellici) all’interno di ampie nicchie culturali, religiose, sociali, geografiche e di modi e tecniche di produzione e consumo.
La genesi moderna della produzione della paura come tecnica di controllo
I soggetti che hanno promosso e guidato la rivoluzione dell’economia globale, perciò, nel mentre si liberavano, destrutturandole, di leggi e normative, di trattati, di patti, e anche di valori pubblici, si impegnavano contemporaneamente a sviluppare adeguate tecniche di controllo, sia esterno, rispetto ai molti rischi di conflitti inopportuni, di attacchi terroristici, ecc., e sia interno, rispetto al circa miliardo di abitanti dei paesi occidentali, che si erano abituati, tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, alle sicurezze garantite dallo sviluppo del welfare state, all’istruzione gratuita di massa, ai risultati dei movimenti per i diritti civili e di quelli pacifisti ed ecologisti, nonché delle organizzazioni sindacali e dei partiti progressisti.
Nel caso del controllo interno, fu subito chiaro che l’istruzione pubblica andava duramente ridimensionata e sostituita, in parte con un’istruzione privata e in parte, quella prevalente, con un’ampia e favorevole comunicazione mass mediale. Le ragioni sono numerose, e così sostanziali da aver prodotto, nell’arco degli ultimi tre decenni, una vera e propria involuzione cognitiva di massa nei paesi occidentali.
In termini neoliberisti, l’istruzione, sopra tutto quella universitaria, doveva tornare ad essere un servizio a pagamento, anche se questo ne avrebbe fatto un privilegio per una minoranza benestante. In seconda battuta, l’istruzione come dotazione di cognizioni combinabili in autonomi schemi valutativo-interpretativi rischiava di essere un ostacolo in termini di resistenza al consumo virtualmente illimitato di merci. Le quali dovevano poter essere persino farmaci (al di là della loro effettiva efficacia o pericolosità) o cibo (ben al di là della soddisfazione della fame) oltre che una grande varietà di oggetti di rara fruizione e di frequente accumulo passivo nelle abitazioni.
Infine, andava depotenziato il rischio che l’istruzione permettesse alle persone (non alle élite, ma ai grandi numeri di persone) di connettersi concettualmente con i testimoni critici professionali di alto livello, come gli scienziati, gli studiosi o gli scrittori, capaci di testimoniare autorevolmente contro un trucco, un errore o una falsificazione.
La continuamente ridotta offerta formativa, peraltro spesso e facilmente screditata come inutile e inadatta per trovare un lavoro, noiosa, materia da parrucconi e radical chic, ecc., veniva però compensata da un incremento massiccio di programmazione televisiva e giornalistica spettacolare, perennemente allegra, gioiosa e sessuale, abbagliante di successo e di ricchezza, estremamente ludica e infantile. Una parte ampia della produzione musicale, con la veicolazione multimediale dei video clip, ha svolto un ruolo importante in questo senso, puntando ad una crescente e irriflessiva fisicità. Tale fisicità, che sarebbe più appropriato chiamare genitalità elementare, si adatta perfettamente alle discoteche, dove l’ambiente sonoro e visivo assorbe ogni possibilità di comunicazione che non sia la pura e continua adesione al ritmo ossessivo, all’istante cristallizzato fuori dal tempo.
Mano a mano che i pubblici occidentali, perciò, venivano spostati dalla formazione impegnativa al consumo ludico, dallo studio e dalla lettura all’intrattenimento, se ne riducevano le capacità di interpretazione critica dei problemi esistenziali e di quelli sociali. Li si rendeva incerti nella comprensione, nel mentre i processi economico-istituzionali li andavano privando delle tradizionali sicurezze del welfare state, della pensione, delle cure gratuite, dell’assicurazione di un lavoro dopo un iter formativo per i figli e persino della proprietà della loro stessa abitazione. Nel contempo, essendosi fortemente individualizzata la società, era andata anche diluendosi la solidarietà garantita un tempo dai vincoli comunitari di parentela, di vicinato, ecc..
Questa incomprensibilità di fondo del mondo genera un’insicurezza ampia e latente, una paura generica, la paura liquida di cui parla Bauman, a cui le relazioni di dominio, a livello internazionale, anche se in maniera molto differenziata da paese a paese, hanno generalmente offerto una tipica coppia di soluzioni. La prima delle due è stata la mediazione operata tra la gente ed i problemi dai cosiddetti “opinion leaders” (in luogo di competenti effettivi e super partes, come gli scienziati considerati nella pluralità delle loro considerazioni) che narrano con parole ed espressioni semplici, spesso rozze e quasi sempre riduttive, delle spiegazioni banalizzate delle questioni, offrendo quasi sempre per esse, implicitamente o esplicitamente, soluzioni tecniche di consumo rassicurante (dei loro stessi libri, o di improbabili strumenti e cure, oppure di vacanze, o di sesso, o di spettacoli, ecc.). La seconda soluzione è stata quella di prospettare periodicamente minacce economiche (la cosiddetta shock economy di cui ha parlato Naomi Klein) o criminali o militari o di catastrofi naturali, lasciando permanentemente le persone sospese tra una paura ingestibile ed il sollievo (consumistico) – una sorta di moderno e complesso meccanismo di “bastone e carota”.
La questione, si consideri bene, non è che non esistano rischi o pericoli effettivi, e che siano solo una invenzione dei gruppi dominanti al potere. Anzi, nulla di più falso. Già nella metà degli anni Ottanta fu pubblicato il saggio La società del rischio di Ulrich Beck, la cui tesi principale è che la produzione di ricchezza è ormai intimamente legata, a livello planetario, alla produzione dei rischi, come dimostra l’esempio dell’energia nucleare.
Il problema, piuttosto, è la estrema difficoltà per le persone, alle quali vengono continuamente imposte narrazioni catastrofistiche strumentali, di valutare le effettive dimensioni di una crisi, del rischio che le ha prodotte e delle caratteristiche effettivamente necessarie per una emergenza adeguata a contrastarla.
Adesso, soprattutto adesso con il rischio reale e tangibile di una guerra che distrugga l’intero genere umano, a causa dell’improvvida decisione di Putin di invadere l’Ucraina, sarebbe del tutto irresponsabile negare il rischio possibile di una guerra atomica.