La pace va costruita: tra guerre, massacri silenziosi e vuoto morale – dai carceri agli animali vittime del nostro silenzio

La pace va costruita: tra guerre, massacri silenziosi e vuoto morale – dai carceri agli animali vittime del nostro silenzio

di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali

La pace va costruita, diceva Pasolini. Ma chi la sta costruendo davvero oggi? Chi si sta fermando a guardare in faccia la sofferenza, senza voltarsi altrove? Chi ha il coraggio di entrare nel dolore degli altri e non solo di raccontarlo a voce bassa, con l’emoticon giusta a fine post? Viviamo in un tempo che parla di pace mentre lascia marcire persone nelle carceri, cani nei laboratori, esseri umani nella solitudine e nella vergogna delle accuse infondate. E noi, dove siamo? Di fronte a un detenuto che si impicca ogni tre giorni – novantuno solo nel 2024, centoventiquattro già a maggio 2025 – cosa proviamo? Sgomento? Rabbia? O solo fastidio per la notizia scomoda tra due storie da “like”? Ci importa davvero che a San Vittore il sovraffollamento abbia raggiunto il 231%? Che i detenuti, spesso giovani, spesso fragili, muoiano in celle bollenti, privi di cure, ignorati da chi dovrebbe proteggerli? Ci scuote il fatto che chi protesta con uno sciopero della fame venga trattato come un criminale pericoloso da zittire con nuove sanzioni? E se tutto questo ci sembra lontano, irreale, allora torniamo qui, nelle nostre strade. Dove anche la verità viene calpestata. Ricordate Gino Girolimoni, linciato da stampa e opinione pubblica per crimini che non ha mai commesso? Ricordate l’ex maresciallo Marchetto, assolto dopo essere stato pubblicamente sbranato dal sospetto? Pensate a quanti oggi vengono marchiati come colpevoli solo perché è più comodo così. Cosa ne è dell’innocenza? Cosa ne è del diritto al dubbio, alla difesa, al rispetto? E gli animali? Dove siete quando i beagle vengono chiusi in gabbie da laboratorio in attesa di essere sperimentati, torturati, eliminati? Perché tolleriamo che dopo anni di battaglie, dopo il caso Green Hill, nel 2025 esistano ancora 1.600 cani prigionieri ad Aptuit, in attesa che un tribunale decida se hanno diritto a una vita? È normale che un essere vivente venga allevato per morire tra aghi e bisturi? Perché ci indigniamo solo quando vediamo le immagini e poi dimentichiamo tutto, come se non fosse mai accaduto? E Bruno? Lo ricordate? Il cane eroe, il compagno di salvataggio, il volontario silenzioso? È stato ucciso a Taranto con un boccone avvelenato pieno di chiodi. Era un cane che salvava vite, un amico fidato, un simbolo di cura e fedeltà. Vi siete chiesti chi possa compiere un gesto tanto vile? E vi siete chiesti perché la sua morte sia già scomparsa dai radar mediatici? Non siamo forse complici di tutto questo? Non è il nostro silenzio a permettere che continui? Non è la nostra indifferenza a legittimare il male? Viviamo in un’epoca dove si è forti solo se si urla, se si accusa, se si colpisce. Ma chi ascolta, chi cerca di capire, chi si ferma a chiedere “perché”, oggi viene visto come debole, fuori luogo. Siamo sicuri che questa sia la società che vogliamo? Un mondo dove si accetta la crudeltà purché ben nascosta? Dove la pietà è un fastidio e la compassione un segno di ingenuità? Pasolini lo sapeva: la pace non si fa con gli slogan. La pace è silenzio che accoglie, parola che ascolta, giustizia che attende. E allora: quanto siamo disposti ad attendere? Quanto siamo disposti a costruire, davvero, ogni giorno, quella pace? Ma anche noi. Perché ogni volta che restiamo zitti, ogni volta che chiudiamo un occhio, che clicchiamo “mi piace” e passiamo oltre, siamo parte del problema. Hai mai pensato cosa proveresti se tuo fratello fosse in isolamento in una cella di due metri e mezzo, senza nemmeno un libro? Se il tuo cane, il tuo compagno, morisse straziato senza che nessuno paghi per quell’orrore? Se tu venissi accusato ingiustamente e distrutto dai titoli di giornale, prima ancora che un giudice ti ascolti? Siamo ancora capaci di pietà? Di indignazione vera, che non dura cinque minuti? Siamo ancora in grado di cambiare? La pace va costruita. Ogni giorno. Anche se fa male. Anche se ci costringe a cambiare strada. Anche se ci guarda negli occhi e ci dice: «Tu, che fai?» Questa mancanza di empatia è un morbo sociale: trionfa la semplificazione, la visibilità, il rumore, e sparisce la pietà, l’ascolto, la comprensione. La sociologia ha il dovere di uscire dall’accademia, di sporcarsi le mani nelle storie vere — quelle nelle carceri, nei tribunali, nei media. Serve un’etica rinnovata — o solo dimenticata: interna alla verità, alla comprensione, alla capacità di soffrire con l’altro. Non possiamo più usare il carcere od il canile come deposito di corpi — dobbiamo restituirlo alla dignità umana, all’urgenza del reinserimento e della cura. Costruire la pace, oggi, significa ripensare la giustizia, il giornalismo, l’opinione pubblica. È questione di silenzi rispettosi, di storie ricostruite, di responsabilità. Chi tace non risolve, ma chi parla senza ascoltare causa morti. È tempo di reimparare la pietà. Anche se fa male. Anche se obbliga al cambiamento.

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