Il corpo, il confine, la colpa
di Cristina Di Silvio esperta in relazioni internazionali
“La società non è altro che il riflesso dei corpi che la abitano, e quando un corpo viene violato, è la società stessa a sanguinare.†– Michel Foucault
Il 14 giugno 2025, a Biella, una donna di 34 anni è stata stuprata nella propria casa da un uomo contattato online per lavori domestici. Un muratore di 28 anni, di origine egiziana. L’aggressione è avvenuta davanti agli occhi del figlio della vittima, quattro anni. Poche ore dopo, l’uomo è stato arrestato a Milano. Potremmo fermarci qui, archiviare la notizia sotto la voce “cronaca neraâ€, tirare un sospiro, voltare pagina. Ma farlo sarebbe un errore. E una colpa. Perché quel che è successo a Biella non è solo il racconto di un crimine individuale. È la radiografia impietosa di un’Europa che frana sotto i colpi incrociati della crisi migratoria, della disgregazione sociale, del collasso della cittadinanza. Non è un’eccezione. È un sintomo. Un segnale d’allarme. In quella casa violata si è consumato uno scontro tra mondi: tra il corpo della donna e la frattura geopolitica del continente; tra l’innocenza di un bambino e il tramonto della protezione istituzionale; tra la solitudine economica e la violenza culturale. Émile Durkheim sosteneva che il crimine non è un’anomalia, ma una parte costitutiva della società . Serve a mostrarci le linee del possibile, e del tollerato. In questo senso, lo stupro di Biella ci parla non solo dell’aggressore e della vittima, ma di noi. Di un’Europa che non sa più difendere i suoi confini interiori, quelli che separano la convivenza dal dominio. Chi è l’uomo che ha compiuto questa violenza? È un soggetto che si muove ai margini, in quella terra di nessuno dove la marginalità sociale incontra l’impunità culturale. Invisibile agli occhi dello Stato, estraneo ai codici relazionali. Eppure, non un “mostroâ€. Il mostro è la narrazione più comoda, quella che ci assolve. Più inquietante è pensare che sia un prodotto. Un figlio indesiderato delle nostre omissioni, delle politiche pubbliche che hanno smesso di costruire ponti e hanno imparato solo a chiudere porti. Ma non si può ignorare neppure l’altro lato: la donna. Una madre sola, economicamente fragile, senza reti. Una figura sempre più ricorrente nel paesaggio europeo post-pandemico, dove la precarietà è diventata regola e il welfare una parola svuotata. “La casa†– simbolo dell’intimità borghese, direbbe Norbert Elias – si trasforma così in un campo di battaglia, un non-luogo dove lo Stato non entra, e dove la violenza si insinua come un’epidemia silenziosa. La presenza di un bambino impone uno sguardo ulteriore. Il trauma assistito non è un danno collaterale. È l’innesto di una memoria violenta che rischia di replicarsi. Pierre Bourdieu parlava di “violenza simbolica†per indicare quelle forme di dominio che non si vedono, ma che modellano l’immaginario. Ebbene, cosa ha imparato quel bambino sulla maschilità , sulla forza, sulla paura? Cosa replicherà , cosa temerà , cosa taccerà ? Non si può evitare la questione dell’origine etnica dell’aggressore. Ma è qui che dobbiamo essere radicalmente onesti: il problema non è la provenienza geografica, ma il vuoto educativo e normativo in cui si sedimentano forme arcaiche di dominio. Ogni cultura ha la sua quota di patriarcato. Ma quando la nostra idea di accoglienza esclude il confronto sui valori irrinunciabili – la parità di genere, l’autonomia del corpo, il consenso – allora smette di essere accoglienza e diventa abbandono. L’Europa, nel tentativo di mediare tra accoglienza e controllo, ha spesso rimosso la necessità di una “contrattualità culturale†esplicita: quali sono i valori non negoziabili che ogni società deve difendere in nome della dignità umana? La violenza di Biella mostra in modo inequivocabile che le politiche pubbliche non possono limitarsi all’intervento ex post. La prevenzione reale passa per l’educazione sessuale e relazionale, la costruzione di spazi pubblici di ascolto e supporto, la riformulazione del concetto di maschilità in chiave non predatoria. Ma tutto questo implica una visione politica complessiva che oggi sembra mancare: quella di un’Europa che, mentre difende i confini esterni, ha smesso di prendersi cura dei confini interni – quelli invisibili ma fondamentali che separano la dignità dalla sopraffazione. Zygmunt Bauman diceva che nella modernità liquida tutto scorre, tutto si dissolve. Ma non tutto dovrebbe. Non dovrebbero dissolversi i legami, i diritti, le responsabilità collettive. Non dovrebbero dissolversi i confini tra intimità e violenza, tra casa e guerra, tra accoglienza e resa. Biella è un microcosmo. Un frammento tagliente del nostro presente. Finché continueremo a raccontare queste storie come incidenti, continueremo a vivere in un’Europa che preferisce ignorare le crepe piuttosto che ripararle. E ogni crepa, prima o poi, diventa frana.