COLLOQUIO-INTERVISTA SOCIOSANITARIA SUL COVID-19

sociologia sanitaria clinica

di Domenico Condurro con la collaborazione di Sergio Mantile, Massimo Doriani, Claudio Verstehen.

Diamo il benvenuto sulle nostre pagine e ringraziamo per l’estrema gentilezza e disponibilità il dott. Antonello Pisanti, di cui ricordiamo sinteticamente il percorso professionale, che non a caso ci ha spinti a compulsarlo, al di là della ventennale amicizia che ci lega, per un parere prettamente medico sull'attuale emergenza Coronavirus: laureato in Medicina nel 1976, con 44 anni di professione quindi, tre specializzazioni presso la Federico II, Clinica pediatrica, Tisiologia e Malattie dell’Apparato Respiratorio, Puericultura più un Perfezionamento presso Università di Perugia in Immunologia e Allergologia pediatrica, Tirocinio ospedaliero semestrale presso 29 Div. Pediatria Osp. A. Cardarelli, Assistente e poi Aiuto Div. di Pediatria Ospedale di Aversa (CE), Aiuto Corresponsabile e poi Responsabile della Sezione di Broncopneumologia Pediatrica presso SS Annunziata Osp. ad Alta Specializzazione, Dirigente presso Osp. Pausilipon UOC di Pediatria ad indirizzo Infettivologico, Dirigente presso Osp. Santobono (UOC di Pediatria ad indirizzo Infettivologico); nell’ultimo decennio della sua carriera ospedaliera è stato uno dei riferimenti principali per la Tubercolosi Pediatrica in tutto il Centro-Sud Italia, ha insegnato per circa 10 anni “Infettivologia pediatrica” presso il polo pediatrico del A.O. Santobono-Pausilipon della Federico II.

Professore, nel corso della sua lunga e onorata carriera, ha mai esperito un’emergenza sanitaria come quella prodotta dal Covid19, o almeno confrontabile ad essa?
Assolutamente no, nessun confronto…. nel senso di un’epidemia e pandemia di tali proporzioni.

Ricordiamo che un lock-down mondiale così ferreo non si era verificato nemmeno durante la guerra mondiale: ha chiuso Lourdes, hanno chiuso le frontiere in pratica tutte le nazioni del mondo, la gran parte delle attività produttive di innumerevoli nazioni si sono fermate (India e Russia solo le ultime in ordine di tempo).
Ricordo comunque con grande lucidità l’esperienza (da studente in Medicina) nel 1973 dell’epidemia di Colera a Napoli. Quella dell’epidemia da VRS (Virus Sinciziale Respiratorio) nei lattanti del 1978. Quella dell’epidemia di Morbillo a Napoli ed in Campania nel 2001 (il cui allarme inizialmente fu lanciato proprio dal sottoscritto) e di alcuni casi di Meningite Meningococcica nello stesso anno. Infine un’epidemia influenzale di notevoli proporzioni nel 2008 in cui fu paventata ma infine scongiurata un’epidemia dello stesso virus (Aviaria) che provocava la SARS. Comunque nessuna di queste esperienze è da paragonare a questa, né mai furono presi dalle Istituzioni provvedimenti cosi draconiani.

Ormai sappiamo quasi tutto sui virus e su come contrastarne la proliferazione ivi incluse le norme igieniche di base da rispettare, come lavare spesso le mani col sapone (all'esterno il virus è molto fragile, protetto da un sottile strato di grasso che ogni detergente con schiuma è in grado di sciogliere) o evitare di stare con le scarpe in casa, non stare a stretto contatto con chi ha un’influenza etc.. ma nel caso del Covid-19, lei ritiene possano valere le stesse, basilari precauzioni? O questo virus ha caratteristiche a tal punto sconosciute da risultare di più difficile contenimento? La rapidità del contagio e la facilità di diffusione insomma, sono comuni a tutti i virus finora studiati? Non si è sempre sostenuto che ambienti troppo asettici e sterili siano l’ideale per rafforzare virus e batteri? Del resto viviamo immersi in un mondo che ne è sempre stato pieno, il nostro organismo dovrebbe abituarsi anche alle novità, almeno questa la teoria alla base dell’”immunità di gregge” che pare crollare sotto i colpi di questo Covid-19. Che ne pensa a riguardo?
Le norme igieniche sicuramente devono essere le stesse, anche se bisogna ammetterlo, non sembra siano risultate sufficienti in questa epidemia, data la particolare contagiosità e velocità di diffusione del Covid19. Efficaci invece, vista la diffusione aerea specialmente in ambienti chiusi (e/o forse più inquinati), sembrano essere state le disposizioni circa la sospensione di alcune attività lavorative e scolastiche e comunque di tutte quelle attività che presupponevano assembramenti, specialmente in ambienti chiusi.

“Un'influenza curata dura 7 giorni, non curata una settimana…” una frase che all'inizio della diffusione del nuovo virus si credeva, forse inconsciamente si sperava, potesse essere applicata anche al nuovo Covid-19: ad oggi i dati sembrano smentirla. “Aprire le finestre, far passare aria”: in sostanza quindi stare chiusi in casa non sembra certo una buona prevenzione, eppure oggi viene ordinato di non uscire, a tutti, sani e ammalati, per decreto, dalle nazioni di tutto il globo (pena multe salatissime, in India le persone sorprese fuori casa senza valido motivo vengono percosse dalla polizia locale). Magari un giorno ci libereremo di questo Covid-19 come successo per altri virus (anche senza un vaccino, come avvenuto per la Sars) ma il prezzo da pagare saranno psicosi diffuse, evidenti rupofobie e una “social distance” o meglio ancora “social distrust”: diffidenza, sfiducia, sospetto. È azzardato prevedere che quest’emergenza sanitaria possa notevolmente influire sui comportamenti sociali futuri? Cambierà qualcosa dopo questa esperienza rispetto alle norme igienico sanitarie a livello individuale e sociale?
Sicuramente questa esperienza influirà sui futuri comportamenti igienico-sanitari della popolazione ma, non solo, penso che potrebbero cambiare anche molte abitudini sociali. Mi auguro però che non si continuerà certo anche in futuro ad uscire sempre con guanti e mascherine, una volta esaurita l’epidemia, ma che il loro uso possa essere riservato in futuro solo a categorie particolari.

I sintomi iniziali sembrano comuni a quelli di una normale influenza e pare che i bambini ne siano pressoché immuni, forse perché, come suggerisce qualcuno, negli organismi giovani c’è una pronta reattività a stimolare gli anticorpi giusti e, di conseguenza, che le vaccinazioni potrebbero dimostrarsi maggiormente efficaci con i giovani, anche contro un virus che, seppur nuovo, è comunque simile ad altri. Qual è il suo pensiero in merito, e quale eredità pensa possa lasciare questo coronavirus in termini di conoscenza e di esperienza pediatrica?
La prima idea che mi venne in mente, inizialmente, per spiegare questa peculiarità dell’età pediatrica fu più di tipo, per così dire “filosofico”, che scientifico: “I bambini sono sempre più attrezzati rispetto a qualsiasi tipo di novità”. In realtà ho appreso poi da alcuni studi e ampie “review” su riviste internazionali di immunologia, che avevo proprio ragione. Il sistema immunitario dei bambini infatti è effettivamente più efficiente ed adattabile nei confronti di agenti infettivi “nuovi” rispetto alla popolazione generale ed in particolare a quella dei soggetti più anziani, il cui sistema immunitario è meno elastico, più rigido e maggiormente basato su esperienze già fatte precedentemente e non su quelle nuove. Questo accade anche, in parte per tutti i virus influenzali in genere, che hanno la tendenza a mutare e a “rinnovarsi”, tant’è che durante tutte le epidemie influenzali il maggior prezzo lo pagano proprio gli anziani (over 65)

Quali ricadute immagina, come esiti prescrittivi e di prevenzione, nel rapporto tra genitori e figli?
Io penso che le ricadute nei bambini, nel rapporto con i genitori, siano complessivamente positive perché una maggiore vicinanza e un maggior tempo dedicato a loro non può che migliorare la relazione; in più ritengo che questa esperienza che per fortuna non ha come bersaglio privilegiato la salute fisica dell’infanzia rappresenta un valore aggiunto se filtrata e spiegata sapientemente dagli stessi genitori e rappresenti un fattore fortificante la psiche infantile.

Ritiene che, in questo ultimo caso, ci possano essere eventualmente delle differenze tra genitori di figli con disturbi comportamentali, ed in particolare di quelli afferenti allo spettro autistico, altra emergenza internazionale esplosa nell'ultimo decennio e di cui non sono ancora per nulla chiari i motivi?
Lo spettro autistico è un contenitore molto grande che va da forme molto lievi di disturbi comportamentali a forme più gravi e di vera disabilità. Di queste ultime ne faccio cenno nel paragrafo successivo. Per quanto riguarda le prime credo che possa solamente giovare un rapporto di maggiore vicinanza di entrambi i genitori ai propri figli sia in termini quantitativi (nel senso della quantità di tempo dedicato) che qualitativi. Infatti da più parti nell'ambito delle competenze psico-pedagogiche si suppone che il lavoro di entrambi i genitori, il tipo di vita frenetico della nostra Società, le lacerazioni dei rapporti all'interno del nucleo familiare, rappresentino un fattore determinante nella genesi di molti di questi disturbi, che, intendiamoci sono sempre probabilmente esistiti ma che un tempo si riuscivano a risolvere con un approccio dettato dal buon senso, dal miglioramento del rapporto affettivo e da una collaborazione tra scuola e famiglia. Oggi invece sembra che vi sia una eccessiva tendenza alla medicalizzazione di queste, per così dire, “variabili psichiche”, ed un eccessivo ricorso alla delega, vedi psichiatra infantile, con un atteggiamento di deresponsabilizzazione ed abdicazione del ruolo genitoriale.

In materia di misure mirate alle persone con disabilità nel loro insieme (fisico, psichico e sensoriale, anche combinato) le misure adottate sono adeguate oppure sono necessarie prassi mirate? Potrebbe dare qualche dritta in tal senso?
È chiaro che maggiore sostegno e maggiori attenzioni soprattutto in termini economici e di personale ausiliario, penso ad esempio all'utilizzo dei lavoratori extracomunitari (che già tanto fanno a livello privato per molti anziani, implementando e compensando le carenze della assistenza socio-sanitaria) andrebbero rivolte a questa tipologia di soggetti con disabilità. Per questo sarebbe utile una politica più aperta, esattamente contraria a quella ostruttiva praticata del tutto recentemente, nei confronti degli immigrati, alcuni dei quali sono anche molto scolarizzati ed anche preparati ad alcune funzioni di tipo assistenziale. Lo stesso dicasi per l’impiego dei recettori di reddito di cittadinanza a cui verrebbero anche fatte le dovute integrazioni economiche offrendo loro un lavoro utile e dignitoso di grande valenza sociale.

Questo virus, della famiglia dei coronavirus, ha origine animale: il salto di specie e la sua successiva diffusione tra umani sono eventi rari, ma è già accaduto: in tempi recenti la Sars (non pandemico), il più devastante la spagnola (pandemia) con milioni di vittime. Dai dati Istat dei 5 anni compresi tra il 2013 e il 2017 risultano 68 mila decessi in Italia per influenza, in media circa 14 mila all'anno, senza alcuna specifica di patologie pregresse. Nel caso del Covid-19 si stanno analizzando in maniera molto più sistematica età, patologie, decessi in strutture sanitarie, determinante presenza ai fini del decesso del virus. Cosa è cambiato secondo lei rispetto agli altri virus influenzali?
Come da lei fatto osservare l’influenza provoca in media ogni anno circa 14.000 (13.600 per la precisione) decessi all'anno su circa 8 milioni di soggetti colpiti quindi una letalità compresa tra lo 0.1-0.2 %. Consideriamo che questa letalità è da spalmare su tutte le età ma dobbiamo anche considerare che la letalità è molto attenuata (se no sarebbe sicuramente maggiore) dall'esistenza di un vaccino, la cui pratica oramai da vari anni è considerata di routine nella popolazione più anziana. Alla luce di queste considerazioni si potrebbe pensare che la vera discriminante sarebbe proprio quella della mancanza di un vaccino per il Covid19 e a fare la vera differenza tra le due entità patologiche.

L’elevato numero dei contagi e dei decessi della regione Lombardia (Bergamo e Brescia in particolare) sta assumendo, in prospettiva, una rilevanza unica, specie se rapportate alle pur difficili situazioni delle altre nazioni. A suo parere è il virus che si adatta alla tipologia del territorio (maggiore presenza di agenti inquinanti, condizioni di temperatura ideali) e di popolazione che incontra (percentuale più alta di anziani con patologie) o ci suggerisce altri punti di vista?
Su questo fronte ancora non si può dire l’ultima parola visto che nel Sud molti ancora prospettano gli stessi disastri, se non ancora maggiori, per le presunte peggiori condizioni del Sistema Sanitario nel Mezzogiorno. Io tuttavia ritengo che per effetto di diverse condizioni ambientali e diverse abitudini sociali e per la maggior quota di popolazione di anziani, tra l’altro quasi tutti ricoverati forse a differenza che nel sud Italia in case di riposo, quindi in comunità molto chiuse e “dense”, il maggior prezzo alla fine dei conti sarà a scapito dei territori del Nord Italia. Ammesso che effettivamente il virus sia stato (io in fondo un po’ lo penso) più aggressivo nel nord-Italia ed in particolare in Lombardia, le ragioni potrebbero essere attribuibili anche a: 1) inquinamento atmosferico 2) concentrazione industriale 3) maggiori traffici commerciali 4) maggiore tasso medio di umidità ambientale 5) temperatura mediamente più bassa 6) massima movimentazione trasporti e collegamenti 7) maggiore concentrazione di individui in luoghi spesso chiusi ed affollati (balere, aperitivi, riunioni quasi sempre in ambienti chiusi etc. 8) maggiore concentrazione di grandi magazzini e supermercati 9) minori esercizi commerciali al dettaglio, piccoli e poco affollati 10) altri tipi di malattie infettive (eccetto quelle gastroenteriche), contrariamente ai luoghi comuni, sono sicuramente più incidenti nel nord, vedi meningiti nel Trevigiano e quella recente di Meningiti nel Bergamasco.

Si è potuto constatare dalla Cina e poi in sequenza qui da noi e in tutte le nazioni man mano raggiunte dai primi casi, che le misure adottate, con negozi serrati, strade semivuote e attività produttive, culturali e ricreative per lo più sospese (si pensi allo sport, Europei di calcio e Olimpiadi, mai annullate durante la storia umana se non per conflitti mondiali, come esempio di coinvolgimento globale di masse, assembramenti di migliaia e migliaia di tifosi da una nazione all'altra, non solo quindi da un punto di vista economico, che provoca lo stop di un giro vorticoso di milioni di euro tra stipendi e sponsor) sono la strada obbligata per sottrarsi al contagio diffuso. Evitare di porre sotto stress le strutture e le organizzazioni sanitarie nazionali è il modo più efficace per fronteggiare il virus e limitare i decessi?
Credo che questa strada a cui Lei fa riferimento, vista la diffusione velocissima del contagio, sia stata comunque inevitabile e la sola al momento percorribile in assenza di un vaccino e di validi presidi terapeutici efficaci e validati. In realtà poi credo che da un punto di vista socio sanitario il nuovo Coronavirus sia stato capace di attuare in brevissimo lasso di tempo alcune aspirazioni di “decrescita felice” e di sanificazione dell’ambiente in cui da alcuni anni una parte delle nuove generazioni di giovani credono. E che lo stesso virus abbia favorito in un certo senso le giovani generazioni nel conflitto che le oppone di fatto in tante declinazioni a quelle che le hanno preceduto.

Ritiene possibile individuare alternative di lotta al virus più efficaci di questa strada comunque già intrapresa?
Ritengo che il nostro Paese, a prescindere dalle giuste misure adottate, ancora una volta abbia pagato un prezzo alto, che forse sarà ancora maggiore alla fine dei conti, per l’eccesso di burocratizzazione del nostro sistema politico-sociale. Mi spiego meglio: la lentezza delle procedure di costruzione di nuovi ospedali di emergenza, la lentezza nella validazione da parte dell’AIFA di farmaci, che sembrano aver avuto efficacia in altri Paesi e la difficoltà nell’approvvigionamento degli stessi, vedi uso della Idrossiclorochina (Plaquenil, farmaco antimalarico) in Francia o di alcuni farmaci antivirali come il Favipiravir (Avigan) in Giappone. In emergenza, a mio parere, bisogna essere più pragmatici e tempestivi ed essere anche più pronti e più audaci nell’approvvigionamento ed impiego di farmaci che potenzialmente possono salvare molte vite umane.

Al fine di confutare destabilizzanti congetture complottistiche, cosa dovrebbe fare la comunità scientifica nazionale, U. E. (d’area) e globale per dimostrare che il Covid-19 non è un organismo originariamente naturale, poi virus modificato e potenziato a livello bio-ingegneristico per ragioni di competizione geopolitica?
La prova che il nuovo Coronavirus non sia il risultato di un esperimento (doloso) di laboratorio è data dal fatto che a pagare in una pandemia non sia solo il Paese autore del presunto attacco biologico ma tutti i Paesi del mondo e del globo. Il fatto che ad esempio dopo Hiroshima e Nagasaki non sia mai più usata l’arma atomica nasce proprio dalla consapevolezza che la messa in gioco di una tale arma finisca, se messa in campo, per distruggere tutto il Genere Umano. Poi bisogna ricordare che l’applicazione e l’utilizzo dei virus fatti in laboratorio, rappresentano una importante e validissima linea di ricerca in ingegneria genetica nella prospettiva di riuscire a curare e modificare addirittura il genoma in alcune malattie genetiche.

Secondo la sua esperienza e valutazione in termini sanitario-sociali (anche socio-sanitari) a fronte della gestione della pandemia Covid-19 vi è una gestione asimmetrica, differenziata e/ discriminatoria fra regioni del nord e del sud Italia?
L’asimmetria dell’assistenza sanitaria esiste ed è data sicuramente dalla maggiore storica efficienza delle strutture sanitarie del nord, basta pensare alla storica migrazione dei malati dal sud al Nord. Questa però avviene generalmente più per malattie cosiddette di “elezione”, e spesso anche presso strutture private, laddove in caso di malattie acute e di “Pronto soccorso” forse nel sud per ragioni storiche e sociali si è sviluppata una migliore Cultura dell’ Emergenza che oltre che attrezzature può contare anche su una maggiore capacità di improvvisazione e di una maggiore creatività, basti pensare all’uso, per fortuna prima che ne venga validato l’uso ufficiale, del farmaco anti-artrite reumatoide il Tocilizumab che si è rivelato efficace nei malati da Covid19 più gravi.

L’ Unione Europea dovrebbe avere dirette e chiare competenze socio-sanitarie e/o sanitario-sociali?
Certo in una vicenda come questa sarebbe stata auspicabile una maggiore coesione ed alleanza tra i Paesi della UE, che se ci fossero state avrebbero inciso molto positivamente nell’indicare linee-guida per provvedimenti comuni e non dissimili nell’affrontare sia le scelte sociali che sanitarie. La stessa coesione ed unione più volte che è stata richiesta da più parti per un esercito “unico” europeo utili a combattere una guerra comune, per non disperdere energie, risorse che possono essere sommate tra loro e ed essere moltiplicate positivamente e virtuosamente.

Termina così questa prima intervista-confronto, ringraziando ancora il dott. Antonello Pisanti per la cortesia e la professionalità e concludendo con una personale riflessione da analista delle dinamiche sociali: è evidente una grande impreparazione, psico-sociale e strutturale, a livello planetario, e una susseguente, lacerante improvvisazione; i leader delle nazioni più potenti colti di sorpresa da un’emergenza tutto sommato non così imprevedibile, costretti a fare marcia indietro, a distanza di pochi giorni se non ore, con dichiarazioni contraddittorie che hanno ancor più agitato le popolazioni (gli assalti immotivati ai supermarket ne sono l’esempio più lampante). Interi sistemi e strutture sanitarie si sono rivelati insufficienti a gestire o quantomeno contenere avvenimenti di questo tipo (Italia, Spagna e Francia, ma anche GB e Usa): ovemai non fosse grave così come i dati sembrano invece confermare, resta evidente che l’umanità si è dimostrata impreparata ad affrontare questa minaccia, tutto sommato naturale. La velocità e la globalizzazione, peculiarità del mondo moderno, con l’incedere sempre più spediti del commercio, della tecnologia, delle relazioni, delle comunicazioni, sembrano essersi ritorte contro il genere umano stesso, perché velocità e globalizzazione del contagio sono ora diventate le armi del virus, come un perverso “karma”, o quantomeno un fortissimo avvertimento: il Covid-19 ci spinge a fermarci, a rallentare quanto meno, a dare più valore a uomini, professionisti, strumenti e opere meno legati al consumismo fine a sé stesso, ma più all'assistenza e alla cura della persona, e in particolar modo di quelle più deboli e fragili.

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